di Gabriele Giacomini
Costituzione alla mano, cosa desiderano, i difensori della libertà ad ogni costo? Con un video sciocchino, epidemia al galoppo, in Lombardia a fine febbraio si twittava #milanononsiferma. Sappiamo tutti com’è andata. Il premier inglese Boris Johnson, ebbro di “libertà”, rivendicava di stringere mani a destra e a manca, per poi rischiare la vita. Con sé ha trascinato l’intero Regno Unito, che oggi ha il numero più alto di decessi in Europa e che prolunga il lockdown. Oltre a questo ottimismo d’accatto, di cosa parliamo? Di quale libertà stiamo chiacchierando?
Non scherziamo, la libertà è una cosa seria. Una Repubblica nata dalle ceneri del fascismo, il quale permetteva solo il pensiero unico, e non certo la critica, e nemmeno la critica della critica, dovrebbe saperlo fin troppo bene. E la cultura liberale è una grande cultura. Ce lo insegnano padri della libertà con John Stuart Mill, un liberale che nell’800 scriveva libri sulla parità di genere. Come Adam Smith, secondo cui la comunità si nutre dell’interesse economico e della mano invisibile del mercato, ma si fonda su un sentimento di simpatia, di empatia, oggi potremmo dire di naturale solidarietà fra gli esseri umani. Come il liberale John Maynard Keynes, secondo cui lo stato deve intervenire nell’economia direttamente e con risolutezza, quando è necessario. Pena l’avvitarsi della crisi e del capitalismo stesso.
Eppure una lezione, il Covid-19, avrebbe dovuto darcela. Thatcher, sposando un falso riduzionismo, rivendicava che “non esiste la società, esistono solo gli individui“. Questa pandemia, invece, rende palese non soltanto che la società esiste, ma che si caratterizza come unione maggiore della somma delle sue parti individuali. La salute non è solo un bene individuale, ma anche un bene comune, collettivo, che quando è tutelato protegge anche i singoli, come se fosse un ombrello sotto il quale proteggersi.
Come la salute è la politica: se dovessimo pensare solo al nostro interesse egoistico non dovremmo neanche andare a votare, perché i costi del recarsi alle urne sarebbero maggiori del contributo che il nostro singolo voto, fra quello di milioni, potrebbe dare. Ma la partecipazione politica non è solo interesse, è anche valore. Ed è questo valore che spero l’appello “Basta con gli agguati” possa ravvivare: un’autentica partecipazione popolare, oltre ai (legittimi) interessi privati delle tradizionali lobby.
Molti, spaventati dal possibile ritorno di una fase storica “pubblica” dopo quella “privata” thatcheriana, parlano di rischio “statalismo”. Molti, in buona fede, sbagliano. Tante fra le innovazioni più moderne, quelle che ci hanno cambiato la vita per sempre, in maniera non continua ma discreta, nascono dall’impegno diretto dello stato nell’economia. Pensiamo alla controversa energia atomica, o al gps presente in ogni smartphone, o a Internet, tutte tecnologie nate nel cuore più profondo dello stato: la difesa. Tutte tecnologie senza le quali le principali aziende del mondo di oggi semplicemente non esisterebbero. Oppure pensiamo a Kennedy, alla Nuova Frontiera, alla conquista della Luna: una direzione politica (i detrattori di oggi la definirebbero “statalista”), che ha dato una spinta formidabile al sistema produttivo statunitense ed occidentale. Allora erano i figli dei fiori ad opporsi, ora lo sarebbero i liberali di destra, per uno strano scherzo della storia. Perché i liberali di destra si sono dimenticati di queste importanti lezioni, provenienti da quella che definiscono la più grande democrazia liberale del mondo?
Noi italiani, di padri della Patria, ne abbiamo avuti tanti, spesso nei momenti più difficili. Nel Novecento, uno di questi è stato sicuramente Enrico Mattei, fondatore di Eni, la più straordinaria impresa (in tutti i sensi) della Repubblica italiana nell’economia. Ai tempi c’era la vecchia Agip, destinata ad essere liquidata. Rilevanti esponenti del liberismo volevano che la partita dello stato nell’energia fosse chiusa per sempre, che diventasse campo esclusivo di interessi privati. Per fortuna non andò così: vinse Enrico Mattei. I libri di storia sanno quanto Eni sia stata centrale per il boom economico.
In alcuni casi, soprattutto quelli di crisi come quello attuale, lo Stato sa essere non solo efficiente, ma può contribuire in maniera determinante a cambiare i destini un Paese. Non ci stupiamo se, ad esempio, Confindustria non è sensibile a questi temi. Quelle che nascono dall’investimento statale, e dai suoi capitali pazienti, sono imprese che ancora non esistono. E che quindi, oggi, non sono rappresentate, né da Confindustria (che, come è naturale, guarda agli interessi delle aziende attuali), né da altri. È giunto il tempo per la buona politica.