Si sprecano le previsioni su come cambierà la vita di tutti noi dopo le limitazioni a quelle piccole e grandi libertà che siamo abituati a dare per scontate. Dalle parole di tanti pazienti mi sento di capovolgere la prospettiva soffermandoci su ciò con cui l’isolamento ci ha costretto a fare i conti, imponendoci una vicinanza forzata con quei mondi e quelle dimensioni di vita dai quali ci siamo allontanati in maniera protettiva, chiamando libertà quella che era una via di fuga.
Il Covid ci ha obbligato a sperimentare sulla pelle del qui ed ora un antica forma di sofferenza, tramandata verbalmente dalle vecchie generazioni, chiamata a suo tempo “dovere di cura” da chi non aveva altra possibilità di scelta.
Le nostre vite pre-pandemia pagavano volentieri un cospicuo prezzo in denaro alla delega, intesa come progressiva presa di distanza da una serie di affanni della vita nei confronti dei quali ci siamo anestetizzati, convincendoci che la vecchiaia, la malattia, l’handicap, la violenza intramoenia o la follia fossero qualcosa dalla quale avremo potuto prendere le distanze.
È stata dura per molti scoprire che i nostri anziani sono in realtà vecchi, con le loro intrattabilità, i pannolini impregnati di odore di urina che credevamo per sempre relegati nelle case di riposo. Scopriamo di colpo che in casa non abbiamo quei nonni vivaci che negli spot televisivi mostrano una dentatura marmorea indistinguibile da quella dei loro nipoti, quanto piuttosto bambini che provano dolore se il cibo non viene ridotto in poltiglia per le loro dentature ormai consunte.
La convivenza forzata ha poi sfrondato il fogliame romantico della vita di coppia, ricordandoci duramente che l’amore è una cosa seria. Allungare l’orario di lavoro, concedersi gratificanti vacanze, fare lunghe sedute di terapia di coppia si sono in molti casi dimostrati poco più che palliativi, costosi cerotti messi a rattoppare unioni corrose dal tempo e dall’ignavia, artifizi per coprire il vuoto che regolava convivenze spesso forzose.
Tante famiglie hanno demolito la mistica del “per sempre”, costrette a constatare di essere divenute in realtà dei piccoli consigli di amministrazione, con soci obbligati a non separarsi per evitare la reciproca bancarotta.
La morte si è ripresa il suo ruolo di variabile incombente, non più una malattia del mondo dei vecchi o protagonista di racconti del passato, curabile coi farmaci o da leggere negli annuari. La morte dalla cronaca è entrata in casa, tra e le lenzuola, annidandosi nei panni da lavare, mutando i gesti quotidiani in minaccia.
Quella malattia lontana si è accasata presso di noi, stritolando certezze intessute in anni di lavoro e pazienza. Cresciuti ad integratori, lavati ed igienizzati, misurati pressione e colesterolo, ci scopriamo oggi deboli comparse con i piedi di argilla che possono essere spazzati via. Detergenti, guanti, aspirapolvere di ultima generazione si sono dimostrati fragili baluardi contro il ritorno storico di qualcosa che credevamo sepolto nel passato, sigillato dentro a ricordi terribili come quello della spagnola, che risale a solo 100 anni fa.
Aveva ragione Freud quando affermava che: “Non eravamo affatto sinceri con noi stessi. (…) pronti a sostenere che la morte costituisce la fine necessari di ogni vita (…) e che ognuno di noi ha verso la natura questo debito e deve essere pronto a saldarlo . (..) In realtà però eravamo abituati a comportarci in tutt’altro modo. C’era in noi l’evidente tendenza a scartare la morte, ad eliminarla dalla vita” (tratto da Il Disagio della civiltà e altri saggi)
La pandemia ha costretto tante donne a sottostare a quella violenza domestica dalla quale avevano cercato di allontanarsi. Tante mogli e fidanzate che hanno conosciuto abusi e percosse aggrappandosi alla legge hanno trovato la forza di iniziare un lungo e difficile percorso di aiuto e distacco, fatto di ascolto e richiesta di protezione, sfidando dapprima i luoghi comuni, l’ira del carnefice, la mancanza di denaro e l’angustia degli alloggi protetti nei quali hanno dovuto albergare.
Per esse l’isolamento è stato una beffa, obbligate a lasciare ogni diritto acquisito e conquistato con tenacia, costrette a veder quella legge che le aveva protette disintegrarsi ed allentarsi, obbligate di fatto al confino in quelle mura regolate dalla lex del cazzotto e della sberla in viso.
Due mesi in casa hanno svelato il volto tragico della follia, mitizzata ed osannata in tempo di libertà da chi quasi mai ne ha sperimentato i graffi sulla mente e sulla pelle dei familiari. Difficoltà di accedere ai colloqui, ai servizi, alle terapie. Psicosi che deflagrano, incontinenza verbale e fisica entro le mura fuggendo da quei fantasmi che le famiglie credevano sedati per sempre con la chimica, quasi fossero dei Golem pronti ad addormentarsi a comando.