Musica

Little Richard è morto, addio alla leggenda del rock’n’roll. La sua “Tutti frutti” ha fatto la storia della musica

Richard Wayne Penniman, da Macon (Georgia), famiglia di origine afroamericana zeppa di pastori pentecostali, si sentiva già da bimbo sfiorato da Dio. La sua è stata una vita fatta di hit, stop and go e fermate spirituali. Un tornado

di Davide Turrini

Awopbopaloobop alopbamboom”. Little Richard, uno dei pionieri della primissima ondata del rock and roll, è morto. Aveva 87 anni. Questa manciata di sillabe incomprensibili, impronunciabili, appallottolate e sciorinate in apertura della sua hit Tutti Frutti (1955) lo ha reso popolare in tutto il mondo. Chi non l’hai ballata alzi la mano.

Richard Wayne Penniman, da Macon (Georgia), famiglia di origine afroamericana zeppa di pastori pentecostali, si sentiva già da bimbo sfiorato da Dio. Anzi, meglio dal Doctor Nubilo, un pastore itinerante che si portava dietro un caravanserraglio di show con pezzi cantati e dove Richard esordì che nemmeno aveva 18 anni. Un altro show, un altro pastore, il Dr. Hudson e Richard appare in scena avvolto in turbanti e mantelli, abiti sgargianti. La famiglia non vede di buon occhio questa ascendenza blues del ragazzino. È la “musica del diavolo” che Richard in qualche modo mescola a certe armonie del jazz di New Orleans per arrivare a un vero e proprio suono rivoluzionario: il rock and roll. Prima di Elvis, per dire.

Le registrazioni iniziano a fioccare, ma non portano a granché. È solo nel 1955 quando firma per la Specialty Records che quel furetto con un ciuffo alto, baffetti sottili, mascara sugli occhi (avete presente Prince? Ecco Prince 30 anni prima), si piazza nelle classifiche di mezzo pianeta con Tutti Frutti, Long Tall Sally, e un’altra hit che ha sciolto le autoradio e i giradischi di intere generazioni: Lucille. “I woke up this morning, Lucille was not in sight (…) please don’t leave me alone”.

Disperato sì il piccolo Richard, ma esuberante e carico, non solo energicamente, come un tornado. Lui in piedi al pianoforte, prima che lo facesse Jerry Lee Lewis, addirittura incendiandolo, spiritato e sorridente, letteralmente indiavolato, Little Richard piazza anche la band (gli Upsetters) alle sue spalle, quella con la line up di fiati, sax tenore e baritono, che addirittura ballano a ritmo e intervengono a tessere in primo piano le melodie del neonato rock and roll.

Inutile, questa musica abbatte ogni barriera fisica dei corpi, mentale e politica. Neri e bianchi ballano e ascoltano la “musica del diavolo” insieme come oggi si ascoltano gli idoli hip hop. Solo che Richard è anche volgare a dismisura, i doppi sensi in Tutti frutti si sprecano. Doveva addirittura essere un brano sul sesso anale, ma è il produttore/scopritore Bumps Blackwell a edulcorare le strofe ma a mantenere la carica esplosiva. Solo che dopo nemmeno due anni Richard si ferma.

È il 1957. È il primo di una serie di stop and go, di fermate spirituali, dove molla tutto e si fa prete. Alla sua maniera. Alla maniera di tutti quei battisti folgorati sulla via della rinascita. Little Richard ha sempre raccontato che mentre era in tour in Australia vide una meteora, pardon una palla infuocata, solcare veloce il cielo. Boom. È Dio che gli dice di cambiare rotta. Molti dissero che era passato lo Sputnik. Ma niente. Ritiro spirituale in un’università.

Nel 1958 diventa ufficialmente predicatore, ma nel 1962 molla tutto ed è ancora sui palchi con quella suo voce roca e quei suoi roboanti urletti acuti. Solo che il rock si era già come affermato ovunque. Ben oltre le bettole della Georgia. Nel 1963 un altro gorgheggio vocale musicale con il brano Bama Lama, Brama Loo. Mentre è in tour in Europa ad Amburgo sono i Beatles ad aprirgli un paio di concerti. Richard dà anche diverse dritte su come cantare a Paul McCartney. Ancora un altro tour con Richard al top della forma e con lui suonano gli ancora semi-sconosciuti Rolling Stones. Mick Jagger loderà (e copierà) parecchio “la frenesia” del maestro sul palco, sillabando soltanto un “fan-ta-sti-co”. E poi ancora, sarà un giovane Jimi Hendrix a fare numero tra gli Upsetters alle spalle di Richard.

Il ragazzotto di Macon cade però in una nuova crisi, quella del trinomio sesso, droga e rock and roll. Se negli anni cinquanta vietava come un pazzo ai componenti della sua band di bere alcool o anche solo qualche canna, tra gli anni sessanta e settanta la cocaina gli entra in circolo quasi più dell’ossigeno. Little Richard ha già chiuso qui la carriera. Non avrebbe bisogno di inventarsi o comporre altro. Infatti non torneranno mai più un brano o la vena compositiva degli esordi. Basta il pilota automatico della Rock and Roll Hall of fame (dove finirà ad honorem), della leggenda che sempre un po’ più raggrinzita e ma totalmente spiritata ed elettrizzante attraverserà ogni palco del pianeta.

Little Richard l’hanno risuonato tutti, una volta o l’altra nella vita. In Italia Celentano l’ha copiato nelle intemperanze verbali e nel suo inglese fluido a farlocco. Little Tony nel nome, of course “piccolo”, ma soprattutto nelle giubbe e nei capelli vaporosi (altro che Elvis, Antonio, tu eri il nostro Little Richard). Un altro piccolo dettaglio nella carriera di uno dei più grandi cantanti di tutti i tempi. Macon è anche la città di Otis Redding. Otis, il re del soul che ha sempre reso l’onore a Richard di un’influenza sulla sua musica e su quel desiderio di show and review, solo pari al più raffinato e romantico Sam Cooke. Georgia, stato di un altro sciupafemmine (a proposito Little Richard era bisessuale, e non si è mai vergognato a far girare la voce) e tossico niente male come Ray Charles. Insomma, la musica rock che conosciamo oggi è nata lì. Sulla tastiera del pianoforte di Little Richard.

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