Era stata prelevata con forza da un gruppo di uomini armati di fucili e machete il 20 novembre 2018 nel poverissimo villaggio di Chakama, a circa ottanta chilometri dalla capitale Nairobi. Lì Silvia Romano, allora 23enne, lavorava come cooperante in Kenya per la onlus marchigiana Africa Milele. Subito dopo il rapimento, la polizia locale aveva ipotizzato una pista interna, ossia un rapimento ad opera di criminali comuni a scopo di estorsione, magari anche con la possibilità che la ragazza venisse venduta oltre confine, in Somalia, ai jihadisti di al Shabaab.
Tre dei responsabili del blitz erano stati arrestati e dalle indagini, portate avanti in Italia dalla Procura di Roma, era in effetti emerso che la ragazza potesse essere stata trasferita in Somalia subito dopo il sequestro: un trasferimento lampo organizzato da un gruppo islamista legato al Al-Shabaab che aveva fornito alla banda di criminali comuni kenyoti, autori materiali del sequestro, denaro e mezzi. Queste informazioni erano emerse un anno dopo il sequestro, nel novembre scorso, e da quel momento non era trapelato più nulla.
Le indagini – Subito dopo il rapimento, i continui aggiornamenti provenienti dalle autorità del Kenya avevano fatto pensare che la vicenda si sarebbe risolta con una rapida liberazione. Nei giorni successivi la polizia aveva infatti fermato 14 persone, ma nulla era emerso rispetto alle sorti della ragazza. Gli aggiornamenti delle autorità kenyote si erano sempre più diradati fino a quando, il 21 gennaio 2019, avevano fatto sapere che Silvia era ancora viva e all’interno dei confini nazionali. A marzo dello stesso anno la Procura di Roma aveva chiesto una rogatoria senza però ottenere risposta dalle autorità, e offrendo anche l’invio di un team specializzato di carabinieri del Ros. Ad agosto dell’anno scorso, secondo quanto emerso dalle indagini della Procura di Roma, Silvia era stata portata in Somalia dopo il sequestro, che è stato su commissione. I mezzi (armi e moto) di cui erano dotati i rapitori (un gruppo composto da otto persone, di cui tre in carcere in Kenya) erano stati giudicati “sproporzionati” dagli investigatori rispetto al livello medio delle bande criminali locali. Poi nessun’altra notizia. Fino alla liberazione.