Anthony Giddens scriveva in Terza via, appena due decadi or sono, che la riforma del welfare state della nuova sinistra degli anni Novanta, alle prese con i dilemmi della globalizzazione e della crescente importanza dell’individualismo nei paesi occidentali, avrebbe dovuto riconoscere come “un’efficace gestione dei rischi (individuale o collettiva) non significasse soltanto minimizzare o proteggersi dai rischi”, ma “anche sfruttarne il lato positivo o energetico”. L’assunzione del rischio non doveva più essere vista come prerogativa “inerente all’attività imprenditoriale” soltanto, ma doveva appartenere anche alla forza lavoro, ed essere interpretata alla stregua di un’opportunità. Il licenziamento, in altri termini, poteva avere proprietà energizzanti per il licenziato.
Nello stesso – celebre – pamphlet, Giddens celebrava la morte del socialismo, come sistema di pensiero che si era opposto all’individualismo, annunciava la fine della “vecchia” socialdemocrazia che era stata all’apice del consenso dal secondo dopoguerra fino agli anni 1970, e pronosticava la rapida perdita di rilevanza, anche se non la scomparsa, della distinzione tra destra e sinistra. L’uguaglianza avrebbe dovuto cessare di costituire un’“ossessione”, come lo era stata in passato, ma doveva essere interpretata e promossa come garanzia della “diversità”. Il libero mercato globale era certo portatore di effetti benefici, come potenzialmente di conseguenze distruttive, ma ogni misura protezionista non era, come non lo era mai stata, “né sensata né desiderabile”. Il ruolo dello Stato in economia doveva grosso modo ridursi a utilizzare il “dinamismo del mercato avendo in mente l’interesse generale”. I valori della Terza via stavano, appunto, a metà tra quelli della vecchia socialdemocrazia e quelli della destra neoliberista alla Thatcher.
Come è noto, Giddens era tra i più influenti intellettuali del New Labour a guida Tony Blair. E la sua terza via, con Blair divenuto nel 1997 primo ministro mettendo fine a quasi un ventennio ininterrotto di dominazione politica dei conservatori, aveva immediatamente raccolto entusiasti proseliti in Europa e tra i democratici americani, dai quali del resto il nuovo corso dei laburisti britannici traeva a sua volta ispirazione. In Italia, l’Ulivo ne aveva abbracciato il credo. La traduzione italiana dell’opuscolo di Giddens recava la prefazione di Romano Prodi. E ancora da presidente del consiglio, Prodi aveva partecipato nel settembre del 1998, all’incontro di New York con Clinton, e Blair, all’insegna di una trionfante Terza via, che in termini di politiche pubbliche, nell’immediato e nel medio termine, si sarebbe tradotta in rigore di bilancio, razionalizzazione delle spese per lo stato sociale, riforma del mercato del lavoro, privatizzazioni… Anche Gerhard Schröder avrebbe fatto parte del club. Nei Democratici di Sinistra invece il sostenitore della prima ora del leader inglese era stato Walter Veltroni.
Non che Romano Prodi e le altre forze dell’Ulivo avessero particolare bisogno della sponda atlantica e oltremanica per ricevere lezioni di liberismo e assumere posizioni moderate. Lo scritto di Giddens, piuttosto, fungeva da sismografo di tendenze già in atto dagli anni 1980, che guardavano al libero mercato come leggitima e più efficace soluzione ai problemi sociali e individuali. Ma certificava con il suo successo, essendone un segno vistoso, lo stato confusionale in cui si trovavano gli eredi della socialdemocrazia.
Il blairismo è stato solo un aspetto del problema. E del resto la ricerca del centro per la socialdemocrazia non rappresentava affatto una novità, né era stata inventata da Giddens. La svolta degli anni 1980 e 1990 nondimeno ha lasciato delle tracce profonde. Come spiegare in piena pandemia e con una recessione economica dalle proporzioni ancora non calcolabili, il tono e i contenuti espressi da quelli che sono stati apostrofati come “liberisti da divano” all’indirizzo del governo, reo per loro di aver calmierato il prezzo delle mascherine? Un prodotto necessario per la tutela della salute di ognuno, obbligatorio per legge e quindi dalla domanda anelastica, e oggetto sin dall’inizio della crisi sanitaria di speculazione e truffe sistematiche. Come interpretare il modo con cui sono state sollevate certe critiche contro le proposte di Mariana Mazzucato – di certo, il fatto di dover imparare da una donna economista per alcuni forse ha aggiunto un ulteriore elemento indigesto –, pur circoscritte alla possibilità di un nuovo ruolo dello Stato in qualità di imprenditore, in grado di indirizzare e vincolare gli investimenti nei settori strategici, e creare capitale paziente non dipendente dalle logiche speculative e a breve termine della finanza?
Il venir meno della critica del capitalismo, di una sinistra capace di ragionare attorno a una alternativa, perché divenuta fiduciosa nei poteri taumaturgici del libero mercato, si è tradotto nella mancanza di un sufficiente pluralismo nel dibattito pubblico sull’economia. In Italia in modo a tratti parossistici, essendo i segnali di cambiamento ancora troppo deboli per tradursi in un’inversione di tendenza. Come ha scritto di recente Stefano Palombarini su Mediapart, l’Italia è un paese ammalato di neoliberalismo, ma non sa di esserlo.
Nella plurisecolare storia della sinistra non sempre è stato così. Il libro appena edito da Harvard University Press di Francesco Boldizzoni, Foretelling the end of capitalism: intellectual misadventures since Karl Marx, permette di ripercorrere il pensiero di chi ha cercato i segni della crisi del capitalismo e ne ha annunciato la scomparsa, interrogandosi al contempo sulle ragioni del fallimento di questo genere di profezie. Da questa riflessione l’autore trae spunto per intervenire nel dibattito in corso nelle sinistre, difendendo posizioni che definisce esplicitamente riformiste e che sono però del tutto compatibili con quelle della Mazzucato. I liberisti da divano – e non – si preparino all’arrivo in libreria di un altro testo sovversivo!
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