VENEZIA – Samar Sinjab era una brava dottoressa, un medico di famiglia. Sarà ricordata, nelle statistiche, come la centesima vittima, tra i camici bianchi, della pandemia. Ma Samar non è solo un numero nelle cronache del coronavirus, è una donna venuta dalla Siria che nel nostro Paese ha trovato accoglienza, oltre al luogo ove prestare il proprio, appassionato lavoro, e creare una famiglia. Una famiglia tutta di medici. La sua storia è commovente e ricca di umanità.
Ha continuato ad assistere i suoi paziente, anche i malati di covid, fino all’ultimo giorno, prima di entrare in ospedale. Il 7 marzo il ricovero nel reparto di terapia intensiva a Treviso, dove è morta un mese dopo, all’età di 62 anni. Al figlio Rafi, che l’aveva accompagnata, ha detto: “Pensaci tu all’ambulatorio. Pensaci tu! Torno a casa presto!”. Non è più tornata.
Il suo ambulatorio era a Borbiago di Mira, in provincia di Venezia. Era partita da Al-Tall ed era venuta in Italia per studiare al’Università di Padova. Si è laureata nel 2004, poi si è specializzata in Medicina generale. E ha fatto il medico di base. Il marito, Omar El Mazloum, era un pediatra molto noto in zona ed è morto per un infarto, a 60 anni, nel 2007. L’impronta dei due genitori è stata molto importante su entrambi i figli. Rafi è anche un medico legale. La sorella Dania, che era già avviata verso una brillante carriera accademica, dopo la morte del padre – per colmarne il vuoto – ha deciso di fare la pediatra sul territorio ed ora lavora al Lido di Venezia.
“Samar era amatissima dai propri pazienti e lascia un vuoto incolmabile. Rafi – ha commentato il presidente dell’Ordine dei medici di Venezia, Giovanni Leone – mi ha confessato che sua mamma ha lavorato fino al giorno prima di doversi ricoverare in ospedale. Ma anche dalla Terapia Intensiva si interessava dei suoi pazienti contando di tornare presto al lavoro. Poi, purtroppo, le sue condizioni si sono aggravate. Lo si può definire, a ragione, un medico fino alla fine, per tutta la vita. Un esempio per tutti”.
Samar era nata ad Al-Tall il 25 febbraio 1958. In Siria è sepolto il marito Omar. Entrambi si erano laureati nella stessa università, a Padova. Lui aveva cominciato a lavorare alla fine degli anni Settanta, mentre lei era diventata medico di base nel 1994. Un altro ricordo viene da un altro siriano, Malek Mediati, che lavora a Meolo ed è segretario del sindacato Fimmg di Venezia. “Era una collega che non si è mai risparmiata, dedicandosi anima e corpo alla sua professione. Sicuramente una vittima del dovere, visto com’è andata con i dispositivi di protezione, arrivati tardi e col contagocce. Le mascherine che avevamo ordinato noi, sono state sequestrate alla dogana. E quelle inviate dalla Protezione civile, sono risultate difettose. Samar, come tutti noi, non ha mai avuto la sicurezza di evitare il contagio per sé e per gli altri”. Eppure non si era fermata, non aveva pensato all’autotutela, piuttosto ai bisogni dei suoi assistiti: “Ha continuato a visitare i suoi pazienti, cercando di proteggersi come ha potuto, finché ha capito di star male”.
Samar è stata tumulata nel cimitero islamico di Marghera. Idealmente l’hanno accompagnata i suoi pazienti, che lei trattava con grande umanità e cura professionale. E che la ricambiavano con affetto. Al punto che molti di loro hanno espresso la volontà di essere assistiti dal figlio.
Rafi le ha dedicato un post, per ricordarla. “Ciao dottoressa sono qui! Erano le parole che ti dicevo quando entravo in ambulatorio dopo di te. Eravamo sempre lì. Io e tu, tu ed io. Tu nella stanza grande, quella di papà. Io nella stanza piccola, quella che era la tua fino al 2007, quando papà è mancato a 62 anni. 62 anni, quelli che hai compiuto qualche giorno fa. Tu però eri sempre la prima ad arrivare, e l’ultima a chiudere le porte. ‘I miei pazienti mi stanno aspettando’ erano le tue parole quando dovevi uscire di casa e c’era la mia macchina davanti alla tua, ed eri già al telefono col primo paziente alle 7 del mattino. Instancabile, negli ultimi 10 anni penso che il tuo ambulatorio non sia mai stato chiuso un giorno. Anche col piede rotto (…). Sì, l’ambulatorio, dopo di noi, era la tua vita”.