Da qualche giorno, fra i primi paesi europei, la Germania ha allentato le restrizioni sulla popolazione. Il criterio di sorveglianza dell’epidemia assunto dalle Autorità centrale e federali è monitorare i nuovi casi, per potere decidere se si stiano creando le condizioni per nuove misure restrittive su contatti e mobilità dei cittadini. Il criterio consiste nel controllare che non si superino 50 nuovi casi di infezioni ogni 100.000 abitanti in una certa regione in una settimana.
Il cancelliere Angela Merkel e i primi ministri dei Länder federali hanno deciso mercoledì scorso di aprire ristoranti e negozi, oltre al graduale ritorno di tutti gli studenti nelle scuole e al rilascio delle restrizioni sugli allenamenti sportivi. La decisione si è basata sui dati dell’infezione alla data di martedì 5 maggio.
In Germania sono consapevoli della criticità del criterio prescelto. Anzi molti esperti nutrono dubbi che il limite dei 50 casi abbia fondamento scientifico. Il criterio empirico si fonda sulla presunta capacità delle autorità sanitarie, in base all’esperienza, di rintracciare in fretta un numero sufficientemente limitato di casi.
Tuttavia, le autorità sanitarie hanno sinora portato a termine il loro compito di tracciamento solo perché il personale era stato più che triplicato con l’assistenza di studenti di medicina e molti volontari. In larga parte, però, questi lavoratori temporanei sono tornati alle loro occupazioni.
Ciò che è insidioso in una possibile seconda ondata di contagi è che potremmo non rendercene conto fino a quando l’infezione non ha già preso velocità. Questo accade perché i nuovi casi appaiono nelle statistiche solo dopo più di una settimana a causa del lungo tempo di incubazione e dei ritardi nelle segnalazioni.
Il problema del ritardo di intervento nei sistemi in retroazione è ben noto agli ingegneri esperti di sistemi di controllo nei quali, per stabilizzare lo stato di un sistema qualsiasi – fisico, biologico, sociale – si osserva l’output in modo da modificare i parametri caratteristici. Se il feedback non è tempestivo, il sistema diventa instabile e le operazioni che si compiono da quel momento in poi sono inefficaci.
Dunque la rapidità di intervento, unita alla capacità di individuare un numero sufficientemente grande di casi sospetti è alla base di un sistema di sorveglianza dotato dei requisiti essenziali per evitare la seconda ondata di infezioni.
Qui entra in gioco la necessità di automatizzare il cosiddetto “contact tracing”. Il tracciamento manuale, adottato da decenni, richiede tempo ed è limitato alle persone che possono essere identificate.
Quindi non si adatta ad epidemie che si propagano velocemente con alta contagiosità (il cosiddetto Ro che deve essere ovunque < 1), in cui vi è incertezza sui contatti sia perché avvengono in prossimità e non per contatto fisico sia perché possono verificarsi fra sconosciuti su un arco di tempo di alcune settimane. Questo è un elemento di particolare difficoltà di contenimento dell’epidemia nel caso del Covid 19, specialmente quando si abbandona il distanziamento sociale.
Si capisce perché tutti gli Stati (a partire da Cina, Taiwan, Corea del Sud e Singapore) abbiano deciso di affidarsi a sistemi automatici di tracciamento che riducono i tempi di intervento e allargano la platea dei potenziali infetti da seguire.
Questo ha sollevato polemiche sulla potenziale violazione della privacy dei cittadini che, però, se si applicano certi criteri di “privacy by design”, può essere evitata, come hanno chiarito in una lettera aperta, lo scorso 19 aprile 2020, trecento esperti accademici e industriali di privacy di 27 paesi, fra cui moltissimi europei. Un sistema decentralizzato e pseudonimo può avere le caratteristiche necessarie a salvaguardare la privacy e, di conseguenza, se ben spiegato alla popolazione, può ingenerare la fiducia essenziale all’adozione volontaria.
I trecento esperti hanno riconosciuto che il sistema in sviluppo da parte di Google e Apple è sulla carta rispettoso della privacy tanto da concludere: “Plaudiamo a questa iniziativa e mettiamo in guardia contro la raccolta di informazioni private sugli utenti.” Quindi molti Governi europei che avevano avviato iniziative scoordinate (fra cui Germania e Italia) sembrano sulla strada di abbracciare questo sistema.
Questo è un bene, in quanto gli Stati dovrebbero evitare di occuparsi della tecnologia per concentrarsi sull’organizzazione, come mostra proprio il serrato dibattito in corso in Germania.
Purtroppo, però, non vedo in Italia una sufficiente attenzione alla gestione dell’intero processo del sistema in feedback – che l’epidemiologo italo-americano Vespignani chiama delle tre T (“testing”, “tracing”, “treating”) – e questo mi allarma non poco.
Incertezze evidenti di governance del processo non sembra abbiano prodotto neppure un criterio semplice, per quanto discutibile, come quello adottato in Germania che, presumo, in quel Paese sarà monitorato nel tempo attentamente e, se necessario, corretto o integrato in corsa (senza dimenticare che in Germania i posti in terapia intensiva sono oggi circa 4 volte quelli dell’Italia con una popolazione solo il 38% maggiore).
Da noi non è stato ancora comunicato quanto personale di supporto e con quale preparazione sarà mobilitato. Sempre Vespignani, cervello romano “in fuga”, dice: “Serve un esercito di tracciatori. Negli Stati Uniti si pensa di assumerne almeno 100mila. Solo la California ne deve mettere in campo 10mila. E stiamo già facendo i bandi.”.
Fatte le debite proporzioni da noi ce ne vorrebbero quasi 15.000. È anche di questo che vorrei sentire parlare e il silenzio delle Autorità mi preoccupa.