Fiori e cartelli di benvenuto, messaggi di ringraziamento per chi l’ha liberata. C’è una comprensibile attesa al Casoretto, il quartiere a nord di Milano in cui è cresciuta Silvia Romano, la cooperante rapita 18 mesi fa in Kenya e liberata sabato. Dalle prime ore dell’alba, nonostante la pioggia, molto giornalisti aspettano il suo rientro in città che dovrebbe avvenire nel pomeriggio. Sulla porta del condominio in cui abita la madre ci sono biglietti che testimoniano quanta felicità abbia scatenato la fine della prigionia in Somalia. “La terra ha davvero tanto bisogno di persone come te, grazie di esistere“, si legge su un foglio appoggiato davanti al cancello di ingresso, mentre ce ne sono altri che ringraziano “i servizi segreti italiani e il ministero degli Esteri”. Silvia è partita da Roma.

Il racconto agli inquirenti, il diario trattenuto dai carcerieri – Il desiderio che Silvia – che ora ha scelto di chiamarsi Aisha come riporta il FattoQuotidiano – ha espresso è di passare “tanto tempo con la famiglia”. E da oggi, dopo aver raccontato per quattro ore agli inquirenti i 18 mesi di prigionia in Somalia, potrebbe cominciare ad avverarsi questo desiderio. Silvia, che ha dichiarato di essersi convertita all’Islam, di non aver subito violenze, è stata ascoltata per quasi quattro ore nella caserma del Ros in via Salaria, a Roma, alla presenza del pm titolare del fascicolo Sergio Colaiocco. Un atto istruttorio lungo e sul quale chi indaga mantiene il più stretto riserbo.

Alla prigioniera, dopo un mese di lacrime, le sarebbe stato concesso un quaderno che lei ha usato come diario, secondo quanto riporta il Corriere della Sera, un documento rimasto in mano ai suoi sequestratori. Secondo la ricostruzione della vittima i rapitori erano in otto, una azione compiuta forse su commissione dei militanti del gruppo islamista Al Shabaab a cui la ragazza è stata poi ceduta dopo un lungo viaggio di trasferimento in Somalia. Un trasferimento che è durato alcuni giorni, in moto ma anche a piedi. La giovane ha dichiarato di essere stata sempre con gli stessi carcerieri.

Rogatoria dei pm di Roma – La conversione all’Islam sarebbe avvenuta a metà prigionia dopo aver chiesto di poter leggere un Corano. Un passaggio chiave per gli inquirenti, ma secondo fonti investigative, potrebbe essere stato il frutto “della condizione psicologica in cui si è trovata durante il rapimento”. L’ipotesi di un’adesione forzata all’Islam sarebbe suffragata anche da una notizia circolata nei mesi scorsi, secondo cui la giovane cooperante sarebbe stata costretta a sposare uno dei carcerieri. Ma lei ha sottolineato più volte che di non aver subito nessun tipo di violenza. La Procura di Roma è in attesa di una risposta dalle autorità somale alle quali è stata inviata una rogatoria per sollecitare la collaborazione nelle indagini.

La fondatrice della onlus: “Non è stata mandata sola” – Intanto Lilian Sora, fondatrice di Africa Milele onlus, l’associazione di volontariato con cui Silvia è partita e con cui la famiglia aveva interrotto i rapporti, dice: “Nel tempo in cui Silvia è stata rapita non ho mai smesso di indagare. Ho scoperto che Silvia era controllata: sospetto che alcuni componenti del commando abbiano dormito vicino alla nostra casa pochi prima del rapimento”. Sora sostiene che la 25enne non sia stata “mandata sola a Chakama il 5 novembre come qualcuno ha detto, è diventata una nostra cooperante ed è partita con due volontari. Ad aspettarli inoltre c’era il mio compagno, che è il referente in Kenya della onlus, e un altro addetto alla sicurezza, entrambi masai. I due volontari dovevano rientrare il 19 novembre e Silvia doveva andare con loro a Malindi per accogliere i nuovi che però hanno ritardato di due giorni perché avevano trovato un volo più economico. Così Silvia è rimasta sola a Chakama. Il 20 è stata rapita”.

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