La vicenda di Silvia Romano ci interroga come studiosi delle cose dello Stato, oltre che metterci di fronte a questioni umane come la pietà, l’amore materno, il rispetto incondizionato della vita umana. Siamo felici della liberazione di Silvia, eppure allo stesso tempo, sine ira ac studio, occorre che ci interroghiamo, anche al di là del caso specifico, sulla legittimità del pagamento di un riscatto (se è vero che ne è stato pagato uno) a dei terroristi, e ancora prima sul trattare con loro. Domande dolorose, che ci costringono per un attimo ad andare oltre l’umana pietà, che pure – umanamente, per l’appunto – non può mancare.
Si dirà: fosse stata tua figlia? Fosse stata mia figlia, ai terroristi avrei dato tutto ciò che chiedevano, senza alcuna esitazione. Ma lo Stato non ragiona come un padre, per fortuna e purtroppo. E allora come ‘ragiona’ lo Stato? Quali sono le implicazioni di questa vicenda? È giusto puntare alla liberazione di un singolo rapito in quanto cittadino pur sapendo che pagare un riscatto significherebbe contribuire all’uccisione di altre persone innocenti? Oppure la vita del cittadino dello Stato può essere messa al di sopra della vita di un numero imprecisato di persone che cittadine dello Stato che paga non sono?
Domande pesantissime, che non è facile porsi e alle quali è difficilissimo rispondere, proprio in quanto le domande e le risposte toccano nervi scoperti, incidono su vicende umane dolorosissime. Tuttavia, occorrerà, forse non oggi, farsele, quelle domande.
Intanto nel paese lo scontro è aperto. Due opposte fazioni si fronteggiano: quelli che da destra chiedono polemicamente “quanto ci è costato il riscatto di Silvia Romano?” per insinuare che la cooperazione internazionale costa troppo ed è roba da fighetti terzomondisti in cerca del brivido che li salvi dalle loro vite agiate che tanto disprezzano col loro essere ‘di sinistra’; e quelli che da sinistra dicono “quando c’è costato non importa, l’importante è che sia libera”, perché la cooperazione internazionale val bene qualche milione di euro dato a dei delinquenti, ed è una missione e non roba da ‘cappuccetti rossi’.
Orbene, credo si possa uscire da questa contrapposizione e voler sapere comunque se è stato pagato un riscatto, e quanto è costato. Si potrà obiettare con un doppio movimento: un’operazione dei servizi non può essere rivelata; se lo Stato rispondesse apertamente, tutti i cooperanti verrebbero esposti al rischio altissimo di apparire prede facili da scambiare con uno Stato ‘debole’.
Ma possono queste ragioni essere opposte alla ricerca della verità? È del tutto legittimo, in un paese democratico, che si conoscano i dettagli di una vicenda di questo genere. Non si tratta di finire tra le braccia di quei veri e propri ‘mostri’ che dicono “se l’è cercata, potevano lasciarla lì” (come leggo su alcuni giornali della destra), ma neanche di allinearsi a coloro che sostengono che “una vita umana non ha prezzo”. Perché è ovvio che la vita umana non ha prezzo, ma le nostre azioni hanno conseguenze su altre vite, altrettanto umane, come si diceva sopra.
In ogni modo, può lo Stato trincerarsi ancora, nel 2020, dietro gli arcana imperii della ragion di Stato? E d’altro canto può la stessa ragion di Stato permettere che una persona innocente sia lasciata a morire in mano ai suoi carcerieri? Domande, ripeto, da far tremare le vene e i polsi. Ma a cui dobbiamo cercare di dare una risposta.
Per quel che mi riguarda, se il riscatto è stato pagato, lo Stato di certo non può mancare al suo dovere di trasparenza. Quella trasparenza, quella pubblicità del potere che già Bobbio quasi quarant’anni fa annoverava tra le ‘promesse mancate’ della democrazia. E citava Kant: “Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è suscettibile di pubblicità, sono ingiuste” (Per la pace perpetua). Naturalmente, la pubblicità delle azioni del potere può essere superata quando essa rischi di procurare più danni di quanti ne eviterebbe, e tale superamento è regolato dalla legge. Ma in linea di massima il potere democratico è un potere pubblico in pubblico.
Sul piano giuridico, già nel 2001 (S/RES/1373) e poi nel 2014 (S/RES/2133) il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aveva stabilito non doversi finanziare in alcun modo, nemmeno per liberare dei rapiti, delle organizzazioni terroristiche. Il G7 ha fatto lo stesso nel 2013. Ma le questioni, umane e politiche, sollevate sopra rimangono tutte.