L’apice della globalizzazione dei mercati, cioè della possibilità di commerciare beni e servizi con sempre meno controlli e tariffe, probabilmente si conobbe poco prima della crisi del 2008-2009, tra il 2006 ed il 2007. La crisi successiva, poca cosa rispetto a quella che stiamo vivendo e vivremo, fu l’inizio della fine.

La vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali Usa del 2014 ha definitivamente segnato la fine degli Stati Uniti quale potenza mondiale egemone. Il Coronavirus ha accelerato questo processo. Basti pensare alla “diplomazia delle mascherine”, con gli Stati Uniti silenti di fronte alla crisi italiana di marzo, e la Cina presente.

Siamo passati dal G7 al G8, e poi al G20, per poi tornare al G2 (Stati Uniti e Cina), ma ora siamo al G0. Non ci sono grandi attori capaci di assicurare una egemonia globale, che sia militare, ma anche economica e culturale.

Al contrario, si staglia all’orizzonte una terribile guerra fredda. Ci sono tribunali Usa che dichiarano la Cina responsabile del Coronavirus, e chiedono i danni. Se un giorno qualcuno a Washington pensasse di mettere nel congelatore, quale compensazione, parte del debito pubblico Usa in mano cinese, sarebbe il detonatore di una escalation.

Al netto degli scenari peggiori, la sicurezza economica è un tema ormai di attualità. Bisogna saper produrre in loco quanto serve ad una popolazione, perché non è per nulla scontato che il “mercato estero” sia disposto a fornire quei beni: dalle mascherine al cibo, sino ai prodotti tecnologici.

Se vogliamo immaginare un nuovo modello di sviluppo, in cui la democrazia ha la prevalenza sull’economia, non è detto che sia un male.

In Italia Confindustria ha però deciso che si va avanti come sempre, business as usual. C’è la crisi economica? Paghiamo di meno i lavoratori e facciamoli produrre non in sicurezza. C’è la fame tra i lavoratori poveri e i disoccupati? Si arrangino. Ci sono risorse per le imprese? Vanno benissimo, ma non chiedeteci di ragionare su come spenderli e di non darli a chi poi paga le tasse fuori dall’Italia, dove in realtà poi non le paga. Confindustria riesce a pensare un modello produttivo basato sempre e solamente sulla compressione dei salari.

Negli anni Settanta, gli anni d’oro dei sindacati e del mondo del lavoro, ma anche anni in cui la produttività in Italia aumentava davvero, c’era la fissazione della “quota salari”: fatto 100 quanto si produceva, quanto andava in salari e quanto in rendita, profitti etc. Oggi non è così, e la “quota salari” è sempre più bassa. Bisogna invertire la rotta, così che quegli attori sociali possano alzare la testa e delineare un nuovo modo di produrre.

In tempo di de-globalizzazione dovremo produrre localmente quasi tutto, e lo dobbiamo fare sia perché è una garanzia politica sia perché ci permette di cambiare. Dal Coronavirus, dai cambiamenti climatici, dalla povertà di massa, se si ripensa il modello, si può uscire. Alla fine ne guadagneranno anche coloro i quali, come Confindustria, pensano che si possa andare avanti come prima.

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