Tra i tanti istituti di ricerca che si stanno impegnando per comprendere il Coronavirus e il suo impatto sulle nostre vite e sull'ambiente, c'è anche un'insospettabile come la NASA. L'ente spaziale statunitense sta infatti finanziando diversi studi basati su dati satellitari, volti a verificare se il miglioramento dell'aria a livello mondiale sia davvero imputabile unicamente al blocco dei trasporti e se il virus possa essere sensibile a variazioni di temperatura.
Da quando un nuovo ceppo di coronavirus, SARS-CoV-2, si è diffuso in tutto il mondo, la vita in moltissimi Paesi è cambiata in molti modi diversi, dall’ambito privato a quello lavorativo, a quello sanitario. Scienziati di tutto il mondo si sono per questo messi in moto, al fine di comprendere tutti questi cambiamenti ed analizzare l’impatto del Coronavirus sulle nostre vite e sull’ambiente con tutti gli strumenti e le tecniche a loro disposizione, compresi i dati satellitari. Per questo, tra i numerosi enti coinvolti ce ne sono anche alcuni “insospettabili” ma che in realtà hanno le risorse e le tecnologie per rendersi utili, come ad esempio la NASA. Di seguito vi riportiamo infatti alcuni dei principali ambiti di ricerca in cui ha deciso di operare l’ente spaziale statunitense.
Uno degli ambiti in cui la NASA si sta spendendo di più ad esempio è quello del rilevamento dell’inquinamento atmosferico. “La risposta del mondo alla pandemia è un esperimento non intenzionale che ci sta dando la possibilità di testare la nostra comprensione di varie fonti di emissione di inquinamento atmosferico”, ha affermato Barry Lefer, scienziato del programma della NASA per la composizione troposferica.
I blocchi dei trasporti di qualsiasi ordine e grado stanno ad esempio incidendo, positivamente, sulla qualità dell’aria, ma il traffico automobilistico non è l’unico responsabile. Gli aerei sono tra i più grandi contributori di inquinamento atmosferico ad esempio, e le condizioni attuali stanno offrendo un’opportunità unica per studiare gli inquinanti legati all’aeroporto, in particolare il biossido di azoto e la formaldeide.
Nell’ambito del suo progetto Pandora, la NASA ha dunque posizionato due sensori che utilizzano uno spettrometro per identificare le sostanze chimiche come ozono, biossido di azoto e formaldeide a diverse altitudini dell’atmosfera, presso gli aeroporti internazionali di Baltimora-Washington e di Atlanta Hartsfield-Jackson, che in questo periodo stanno sperimentando un calo complessivo dei voli pari rispettivamente al 60 e al 70%.
La NASA sta poi confrontando le informazioni dei sensori a terra con le informazioni satellitari fornite dal TROPOspheric Monitoring Instrument (TROPOMI) dell’Agenzia spaziale europea (ESA), a bordo del satellite Precursor Copernicus Sentinel-5, lanciato nel 2017 e gestito dalla Commissione europea in partenariato con l’ESA, gli Stati membri dell’UE e le agenzie dell’UE. “Vogliamo aiutare le parti interessate, come i responsabili politici, a migliorare la loro comprensione dell’aria che respiriamo e in che modo quell’aria può essere influenzata dall’inquinamento degli aeroporti”, ha spiegato la responsabile del progetto, Jennifer Kaiser.
Joanna Joiner e Bryan Duncan, presso il Goddard Space Flight Center della NASA a Greenbelt, nel Maryland, stanno invece lavorando alla creazione di mappe e immagini che mostrano come COVID-19 abbia contribuito a ridurre l’inquinamento atmosferico in tutto il mondo. Entrambi lavorano con i dati dello strumento di monitoraggio dell’ozono (OMI) presente a bordo del satellite Aura della NASA lanciato nel 2004 e sviluppato congiuntamente da Olanda e Finlandia, per aiutare a rivelare come le politiche COVID-19 incidano sulla qualità dell’aria.
OMI è un precursore di TROPOMI. Sebbene TROPOMI fornisca informazioni a risoluzione più elevata, OMI ha raccolto una maggior quantità di dati. “Stiamo osservando i cambiamenti nel biossido di azoto per capire come stanno cambiando le economie”, ha detto Duncan. “La quantità assoluta di biossido di azoto non è molto elevata, quindi i cambiamenti sono impercettibili”, ha aggiunto la Joiner. “Dobbiamo determinare se il cambiamento è dovuto a condizioni meteorologiche, come il vento, o se sia effettivamente dovuto alla diminuzione dei trasporti“. Grazie a ulteriori finanziamenti della NASA, Joiner e Duncan stanno quindi confrontando i dati di questa pima parte del 2020 con una media di dati dei cinque anni precedenti, in modo da individuare esattamente se ci sono variazioni significative e quando eventualmente esse abbiano iniziato a manifestarsi.
Ben Zaitchik della Johns Hopkins University si sta invece occupando di un tema molto sentito dall’opinione pubblica: l’arrivo della stagione calda avrà un impatto positivo sulla diffusione dei contagi, contribuendo a contenerli, o no? “Vogliamo sapere quanta parte di quell’eventuale cambiamento sarà frutto delle politiche di distanziamento sociale e quanta sarà invece imputabile a temperature e umidità più elevate”, ha affermato Zaitchik.
Applicando i dati dei satelliti terrestri a quelli sulla salute pubblica relativi a COVID-19, Zaitchik sarà in grado di notare se ci sono collegamenti significativi. Secondo Zaitchik, se il team troverà un legame tra il tempo metereologico e i casi di COVID-19, influenzerà il modo in cui pensiamo a questo in termini di una potenziale seconda ondata di casi durante l’autunno. “In questo momento, i politici prendono decisioni in base alle tendenze osservate, ma le incognite restano tante. Il tempo tra ricerca e discussione pubblica è stato incredibilmente ridotto, uno studio viene pubblicato ed è subito in prima pagina”, ha commentato Zaitchik. “Ma questo virus è del tuttonuovo per la scienza e gli scienziati hanno appena iniziato a studiarlo. Fare scienza di alta qualità e definitiva richiede tempo, a volte molto tempo. La richiesta di risposte è comprensibilmente elevata, ma dobbiamo anche cercare di bilanciare urgenza e pazienza“.