Dal momento che l’emergenza presenta curve epidemiologiche che inducono a sperare che il peggio sia passato, mi sia consentito provare a ragionare su alcune questioni che paiono, apparentemente, certezze ma su cui nutro molti dubbi.
Una questione riguarda le Rsa. Dipinte come lazzaretti da buona parte della stampa, se ne è voluta dare una immagine come luoghi di estrema sofferenza dettata, in parte, anche dalla approssimazione del personale impiegato. Credo che se potessi riassumere la percezione degli italiani su queste strutture, la percezione sia prossima a quella di un massacro perpetrato ai danni dei più deboli con, in certi casi, la complicità dei gestori.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha registrato (a livello europeo) che il 50% dei decessi è avvenuto dentro quelle mura. Per scrupolo ho cercato di capire quale ricerca e con quale metodologia sia stata condotta, per supportare questi dati – ma non sono riuscito a trovarla. Parallelamente, a partire dal Pio Albergo Trivulzio, una fatwa è stata editata da alcuni giornali – e successivamente sposata anche da altra stampa – in cui l’improvvisazione sanitaria si coniugava con disegni più o meno criminali ed estesi anche ad altre Rsa.
Nel mio piccolo sono stato testimone diretto di come l’organizzazione in cui lavoro non solo è lontanissima dai numeri dati dall’Oms e dalla stampa nazionale in termini di decessi, ma lo è anche i termini di contagi. Ed è una organizzazione che, per numeri di ospiti e di strutture per anziani, non credo sia di poco conto nell’economia di questa contabilità.
Su circa 1500 pazienti, i decessi nel mesi di aprile sono stati 31, posto che nel mese di marzo di Covid non era deceduto nessuno. E se si vuole focalizzare l’attenzione sui contagi, i nostri dati ci danno un indice percentuale che non arriva all’8% su un totale di 1440 pazienti.
Ora si potrebbe pensare che Anteo (questo è il nome della impresa sociale) sia particolarmente capace e rigorosa nell’applicazione dei protocolli tesi ad arginare il virus, ma anche fosse vero dubito che sia stata l’unica o tra le poche che possono vantare simili risultati. E lo dubito sulla base, appunto, di una moderata conoscenza di chi vi opera. Tutte persone con diversi gradi di motivazione ma con una preparazione consolidata e professionale.
Che i luoghi di cura dell’anziano fossero luoghi ad altissimo rischio lo si sapeva ancor prima dell’epidemia. È nella natura stessa di quegli spazi di cura, posto che ci soggiornano uomini e donne fisicamente molto compromessi o anagraficamente in età avanzata. Che tali luoghi abbiano visto un incremento dei decessi severo nei numeri è cosa indiscutibile. Ma che tale incremento sia quello rappresentato dai dati usciti sulla stampa, a mio parere, è tutto da verificare.
Rimane quindi il dubbio che le Rsa abbiano tenuto più di quanto viene raccontato dal sistema massmediatico. Che si sia svolta una seria opera di contenimento del virus, posto che impedirne la totale diffusione era al di sopra delle umane possibilità dei direttori sanitari che senza l’ausilio di tamponi avevano l’unico strumento dell’isolamento dei pazienti sintomatici. Strumento che di fronte gli asintomatici mostrava tutta la sua debolezza.
Non so, esattamente, da dove l’Istituto Superiore di Sanità abbia tratto il dato per cui il 44% di contagi è avvenuto all’interno delle Case di riposo. Non certo sulla base di dati locali che, ad esempio, a Milano lasciano molto a desiderare. Si pensi al fatto dei tamponi che fino a fine aprile (dati a cui si riferisce la proiezione dell’Iss) era ben lontano dall’essere procedura fatta a tappeto anche all’interno delle stesse Rsa. I dubbi investono la possibilità che i dati siano presunti e ben lontani dal rappresentare quel 50% dei decessi complessivi che l’Oms accredita alle strutture per anziani.
A questo punto, l’ultimo interrogativo: ma se prestigiose istituzioni internazionali o nazionali non verificano i dati che raccolgono, quali sono le certezze in merito a ciò che è realmente successo? Perché, cosa non da poco, sulla base di questi dati si dovranno stilare le politiche sanitarie del futuro. Forse è il caso di avviare una seria ricerca epidemiologica che lasci poco spazio all’approssimazione. Perché, ad oggi, ci si muove ancora all’interno di questo recinto.