Confindustria: un’organizzazione intrinsecamente reazionaria, nel senso che reagisce solo agli input esterni, in assenza dei quali continuerebbe a restare silente; da convitato di pietra nel dibattito sulla politica industriale italiana.
Non per niente l’unica stagione in cui l’associazione degli industriali si avventurò nella riflessione strategica e organizzativa sul “che fare” fu alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, quando la categoria era sotto choc per quegli “autunni caldi” che, tra scioperi e occupazioni delle fabbriche, mettevano in discussione perfino il ruolo padronale. La stagione della commissione presieduta da Leopoldo Pirelli, che varò l’omonima Riforma per de-notabilizzare la rappresentanza e sburocratizzare la struttura; mentre il Movimento dei Giovani Imprenditori (non ancora conformistizzato in una sorta di Rotaract Club dei cloni di papà) promuoveva il documento dal titolo emblematico: “Una politica per l’industria”.
Di fatto un testo realizzato dal Centro Einaudi di Torino (Mario Deaglio, Valerio Zanone, Giuliano Urbani), punto di riferimento dell’allora ala progressista del Partito Liberale; dove militava anche il futuro ministro Renato Altissimo, in quel momento raccordo tra intellettuali liberal e giovani turchi di Confindustria nella sua duplice veste di deputato Pli e di presidente nazionale di quegli under 40 alla ricerca di un ruolo politico per il proprio associazionismo.
Il tempo in cui l’intero gotha degli industriali si rivolgeva all’intellighenzia laica del paese per ricevere idee ed Eugenio Scalfari escogitava la formula “profitto e salario contro la rendita”; destinata a promuovere l’ipotetica “Alleanza dei produttori” che vivacizzò qualche convegno dell’epoca.
Nel frattempo era arrivato al vertice dell’associazione, per il biennio 1974-76, il più glamour su piazza: l’avvocato Gianni Agnelli che, prima di annoiarsi dell’impegno, stipulò con i sindacati la famosa “svolta dell’Eur”, in cui si dichiarava “il salario variabile indipendente”. La massima fuga in avanti per un accreditamento progressista, in linea con lo spirito dei tempi. Tempi che stavano rapidamente mutando, tanto da convincere gli industriali italiani al rientro all’ovile: il dialogo (lubrificato dai finanziamenti) con i partiti sedicenti moderati centristi, la riscoperta affinità solidale con la parte abbiente della società. Rendita e profitto contro il salario.
Intanto la deindustrializzazione tagliava le unghie ai lavoratori e nessuno più parlava di politica industriale. Anche perché ormai, in sella a un sistema d’impresa largamente micro e familistico, c’erano gli eredi di quella generazione che nel secondo dopoguerra aveva contribuito al Miracolo economico; se non altro con intraprendenza e spregiudicatezza. Mentre i loro figli si rivelavano solo dei gestori senza spinta propulsiva, come rivelava la serrata degli investimenti industriali a partire dalla metà degli anni Settanta. Una genia abbarbicata ai propri privilegi di classe, ossessionata dal timore di minacce incombenti a ogni stormire di fronde, asserragliati nel mondo piccolo delle loro frequentazioni sociali e dei consulenti fidati, preposti a rassicurare/consolare.
Usciti di scena i grandi industriali (i Costa, gli Agnelli, i Pirelli), finiti nel dimenticatoio gli innovatori da convegno, la leadership di Confindustria (presunta classe dirigente) ormai viene selezionata in due tipologie, entrambe incapaci di volare alto: i professionisti dell’associazionismo, habitué del cubo nero di viale dell’Astronomia Eur, impegnati h24 a intercettare cariche (Emma Marcegaglia? Vincenzo Boccia?); i ruspanti duri e puri, esponenti dell’ipotetica eccezionalità antropologica forgiata dalla fabbrichetta, tipo il varesotto Giorgio Fossa e ora il cremasco Carlo Bonomi. Gente che non sa niente del mondo ma che ritiene ombelico del mondo i capannoni aziendali. Per cui strabuzza gli occhi se qualcuno gli dice che non è proprio così, che non condivide la ricetta riproposta per l’ennesima volta che i soldi vanno dati ai padroncini, perché loro sanno impiegarli al meglio. Mica i poveracci alla fame per la pandemia.
Come il padroncino-tipo Bonomi, che ripete a disco rotto l’insulto più grave in grado di concepire: anti-industriale! Blasfemia di chi rinnega il migliore mondo possibile. Sarebbe bene che il sindacato dissotterrasse l’ascia di guerra, recuperando le energie perdute nella troppa concertazione, per riportare alla ragione questi confindustriali reazionari, che reagiscono (diventano ragionevoli) solo se adeguatamente scrollati.