Ha suscitato molto scalpore la liberazione di Silvia Romano, ottenuta attraverso il pagamento di un riscatto. I cosiddetti “buonisti” sono contenti a prescindere perché si è salvata una persona. I “cattivisti” mettono in evidenza che, in questo modo, si incentiva e finanzia il terrorismo.

Secondo costoro la ragazza pare essere succube della sindrome di Stoccolma: è rientrata stravolta nelle sue convinzioni religiose e addirittura ha assunto un nuovo nome e, forse, una nuova personalità. Per sindrome di Stoccolma si definisce una dipendenza psicologica nei confronti del carnefice e aggressore. Prende il nome dalla città dove un gruppo di ostaggi tenuti in segregazione presentarono, al momento della liberazione, sentimenti di attaccamento nei confronti dei loro rapitori.

Nelle situazioni che perdurano a lungo nel tempo, ad esempio anni, l’ostaggio manifesta anche ostilità e rancore verso i liberatori, in quanto ha aderito in toto al punto di vista e all’ideologia del carnefice. In psicologia si può arrivare in diversi casi a configurare questo atteggiamento come un meccanismo di difesa inconscio definito col termine di “identificazione con l’aggressore”. L’ostaggio, per sopravvivere emotivamente all’angoscia, divide l’immagine mentale del carnefice in due parti, una delle quali positiva; a questa si attacca emotivamente, fino ad innamorarsene.

Naturalmente tutte queste sono congetture teoriche non facili da dimostrare, anche perché i casi, oggetto di studi e dibattiti, sono fortunatamente relativamente rari. Non si tratta di una malattia in senso medico, ma di uno stato emotivo, costruito nella situazione di terrore. La persona avrà molta difficoltà ad abbandonarlo perché rischia di ripiombare nell’angoscia, anche se ora è sana e salva.

Nei bambini allevati da persone disturbate è stata rilevata la tendenza ad assumere gli atteggiamenti del loro persecutore. La psicoanalista Alice Miller in tre suoi libri mette in evidenza come il bambino terrorizzato corra il rischio di assumere atteggiamenti conformi all’aggressore con cui si identifica. In questi libri l’autrice rilegge la storia del piccolo Adolf Hitler per trovare nei traumi, nelle umiliazioni e vessazioni subite nella sua infanzia le radici della sua psicologia da adulto, carnefice di milioni di esseri umani.

La conclusione della Miller è che occorre rifiutare la “pedagogia nera”, molto in voga agli inizi del ‘900, caratterizzata da atteggiamenti aggressivi, punizioni, vessazioni e denigrazioni dei bambini. L’atteggiamento pedagogico dovrebbe essere amorevole e supportivo, senza sfociare nel lassismo e nell’abbandono emotivo. Se si lascia che un bambino faccia tutto ciò che vuole significa che non gli vogliamo bene e lo rendiamo succube dei suoi istinti. Amare qualcuno significa responsabilizzarlo e cercare di fare a lui quello che avremmo desiderato venisse attuato verso di noi.

Nei confronti della ragazza Silvia Romano credo che occorra un amorevole allontanamento dalla scena mediatica, per lasciare che coi suoi affetti più cari possa rielaborare il trauma subito. Spero che i vari conduttori di talk show non indulgano in interviste che riaprirebbero, al di là della volontà del conduttore, solo delle ferite.

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