L’ultimo in ordine cronologico è il linciaggio mediatico contro Silvia Romano di cui non parlerò perché in tanti hanno già scritto, e perché ho ancora il rigurgito dai commenti letti online.
Sempre riguardo a un’altra donna la settimana scorsa si era alzato il polverone, opportuno come una foto di Sgarbi sul cesso, sul look di Giovanna Botteri nato da un servizio di Striscia la notizia, che dice di averlo mandato in onda con lo scopo di supportare la giornalista contro i commenti dei soliti idioti. Troppa grazia.
Se possiedi un social, quasi chiunque abbia uno smartphone, è impossibile non essere vittima del fuoco amico, cioè scoprire o imbattersi per caso nel simil-pensiero di qualche webebete.
Pretendere dalla gente di contare fino a dieci prima di postare qualcosa, è come aspettarsi che Trump non dica qualcosa di offensivo contro una razza, una donna o un giornalista.
Il condotto tra neuroni (pochi) e bocca/tastiera è troppo breve per arrivare a contare fino a dieci.
Ci hanno detto che Internet è “libero”, e se questo assioma è vero, allora bisognerebbe approfondire il concetto di libertà. Perché se sul web posso esprimere più o meno quello che voglio, bisogna stabilire con esattezza dove finisce la tua libertà di offendermi e dove inizia la mia di libertà di vivere in pace.
Si parla anche della “democrazia” del web. Anche su questo ci sono perplessità, perché se democrazia è dare voce a tutti, ai fascisti, ai pedofili, agli stupratori, ai razzisti, non sono sicura che il popolo meriti il potere.
Democrazia è (anche) il sogno di poter stare tutti insieme dentro un contenitore, più o meno ampio, nel quale ognuno può in tutta serenità sentirsi libero di essere chi vuole, unico e diverso, anche antitetico. Un luogo dove il confronto può esistere senza che mi si auguri la morte, o di essere stuprata, o tutto il male del mondo.
Sui social, con una grande fetta degli utenti, questo confronto è impossibile.
Per mancanza di mezzi, perché riflettere sulle proprie parole richiede tempo, perché la “pancia” (ma a me verrebbe da usare un altro organo) non riesce a trattenere la bile.
Chi commenta di getto, virulentemente, il più delle volte non ha capito niente di quello che ha letto (analfabetismo funzionale) o perché non era nelle condizioni di farlo (in mezzo alla gente, al lavoro, in autobus) ma ha reagito lo stesso.
Quando si parla degli haters l’intellighenzia, ma anche semplicemente quegli utenti che transitano dall’altra parte della riva, si trovano tutti d’accordo sul come definirli.
Eppure ogni giorno quotidiani, giornalisti di fama conclamata seguiti e stimati, notiziari e trasmissioni continuano a trascrivere o a mandare in onda quegli stessi commenti che poi deplorano, col risultato di amplificarne l’eco.
Se non possono essere censurati, dovrebbero almeno restare inascoltati, ignorati, lasciati alle autorità di competenza.
Ciò che sta succedendo a Silvia Romano, non solo per le accuse ma per la legittimazione della stupidità del male, deve essere la spinta per cessare tout court di menzionare anche il minimo peto verbale di questi signor nessuno.
Considerarli un ago della bilancia (ai fini di popolarità in termini di click o share o per mancanza di idee nella peggiore delle ipotesi) è deontologicamente sbagliato. Citarli non è dare informazione ma agire da cassa di risonanza.
Nel citarli gli si riserva un’immeritata popolarità che diventa sfregio ai danni di chi ha subito il loro accanimento.
Nel far diventare gigante il nano si dà potere a chi urla, a chi straparla, e nel farlo si rischia di nutrire una folta schiera di mitomani pronti a emularli, entrando in un loop senza fine.
I media che continuano a dare voce a questa putrescente fetta della società rischiano di diventare a loro volta conniventi.