Diritti

Migranti, il mio viaggio lungo la rotta balcanica. ‘Non siamo qui per divertimento, siamo rifugiati’

La maglia del pigiama, sono davvero salita sull’aereo di ritorno per Roma con la canotta del pigiama. Che poi, si vede proprio che lo è: ha i tre bottoncini davanti, è a righe e ha quel merletto sulle spalline che hanno solo i pigiami. Me lo sto ricordando ora che ero vestita così, perché quel giorno di settembre di cinque anni fa ero talmente stravolta dalle mie nuove priorità, da quello che avevo visto, dalle storie che avevo ascoltato, che l’avevo rimosso.

Oggi, quando ho letto la notizia della Corte di Giustizia dell’Unione Europa, che ha stabilito che i richiedenti asilo e cittadini di Paesi terzi trattenuti in maniera illegittima e senza un motivo valido alla frontiera serbo-ungherese vanno liberati immediatamente, ho ripensato a quel viaggio di cinque anni fa. Stavo tornando dall’Austria, dopo aver attraversato il confine con i migranti che provenivano dalla rotta balcanica. Io sette chilometri a piedi fino alla dogana, loro da Siria, Afghanistan, Iraq e chissà quanti chilometri già percorsi e da percorrere.

Settembre 2015, Ungheria, stazione centrale di Budapest. Dobbiamo arrivare a Roszke, un paesino al confine con la Serbia da dove passa la rotta migratoria per terra. Siamo sulla banchina e appena arriva un treno, invece di chiedere al controllore se quel treno fosse il nostro, il mio collega di viaggio chiede se lì, proprio su quella banchina, si possa fumare. Sì, si può. Il treno che abbiamo davanti parte mentre lui fuma. E sì, è il treno che avremmo dovuto prendere. Vabbè, torniamo a Roma, pensiamo. E invece poi no, ci abbiamo provato.

Arrivati a Roszke raggiungiamo con un autobus il confine con la Serbia, lo stesso confine che il presidente Orbàn ha diviso con un muro di filo spinato per contrastare le migliaia di persone che tentavano di oltrepassarlo. Lì, qualche giorno prima la polizia sparava gas lacrimogeni, e invece ora non c’è niente e quel muro divide il nulla dal nulla: intorno campi di grano ormai secco, militari che chiedono i documenti ai pochi passanti, contadini piegati a lavorare la terra, e un bar con parecchie mosche, tavolini di plastica blu, una giovane barista incinta e parecchi uomini adulti che bevono birra.

Il giorno dopo decidiamo di cambiare zona, la rotta si era in pochi giorni spostata e da quel poco che capiamo dai telegiornali dobbiamo raggiungere Hegyeshalom: l’ultimo paese ungherese prima dell’Austria. Scendiamo dal treno e ci sediamo su una panchina, ci sono telecamere e militari: ci dicono che sta arrivando un treno dalla Croazia dal quale scenderanno i migranti che poi verranno scortati a piedi fino alla frontiera. Aspettiamo, passeggiamo, andiamo in uno di quei bar di confine che abbiamo imparato a conoscere, e dopo qualche ora torniamo verso i binari. Finché qualcosa si muove: il treno arriva ed è strapieno.

Qualcuno abbassa il finestrino e saluta, molti ci chiedono dove fossimo, cioè proprio in che Stato fossimo. Avevo la telecamera accesa e ricordo di aver pensato: “queste persone non sono state informate”. Provo a mettermi nei loro panni: con un’incertezza del genere cosa avrei fatto? Di chi mi sarei fidata? Come avrei sistemato le mie cose, i miei documenti, i miei effetti e affetti personali?

Dal treno scendono donne, uomini, famiglie, ragazzi, bambini scalzi con i piedi protetti da strati di calzini, con poche cose, uno o due zaini e passeggini. Quando ci chiedono dove siamo non so se sto dando loro una buona o una cattiva notizia, ma voglio dirglielo e sorrido a chi è stanco morto dopo un viaggio lungo con sulle spalle tutta la vita. Qualcuno ricambia il sorriso; tutti, invece, sanno che toccherà attraversare ancora un altro Stato e camminano come fosse una scalata verso un obiettivo comune: un treno di persone.

Andiamo con loro. Incontro subito un ragazzo afgano che mi racconta il suo viaggio e mentre chiacchieriamo io, che sono girata verso di lui con la telecamera accesa, prendo in pieno un palo. Sì, scoppiamo a ridere. E lì per lì penso alla figuraccia fatta, lui che mi parla di un viaggio così pesante e io che prendo in pieno un palo per strada e devo ricominciare la ripresa. Goffa. Però ridiamo insieme, perché una figura di merda fa ridere ovunque anche se stai attraversando il confine di uno Stato per scappare dal tuo. Viva le figure di merda!

Più avanti incontro una coppia di ragazzi, vengono dalla Siria e vogliono arrivare in Olanda. Vogliono e possono, sono rifugiati. “Siamo partiti dalla Siria, poi Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Croazia… – mi racconta la ragazza, poi si ferma per sospirare, sorridendo guarda il suo compagno e continua – ora Ungheria”. Riesco a dire solo “Buona fortuna”, solo questo e null’altro.

Insomma, vorrei chiedere scusa per aver chiesto loro, sul ciglio di una strada sbarrata per un passaggio a livello, parte della loro vita; vorrei chiedere scusa per non poter comprendere il loro viaggio e dire loro che andrà tutto bene, che le leggi servono a tutelarli, che i confini esistono ma loro hanno diritto di vivere in un paese in pace. Vorrei, ma non dico nulla di più. Così belli, giovani, vivi. Vorrei urlare “Fateli passare!”.

Ma non basta e me ne accorgo appena arrivati alla frontiera, perché qui la realtà mi tira una sberla: a tutti viene chiesto di sedersi in fila, una marea di persone arginate da un nastro bianco e rosso e parecchi militari. Io e il mio collega in piedi, alziamo il nastro, mostriamo i nostri passaporti e passiamo. Sbam. La sberla. L’imbarazzo e l’impotenza: tu sei cittadina europea, non farai nessuna fila per il controllo documenti, non salirai su dei bus che non sai in quale centro di accoglienza ti porteranno. Tu potrai prendere un taxi e poi un treno per la stazione Centrale di Vienna.

Qui alla dogana le organizzazioni umanitarie gestiscono questo enorme spazio, danno cibo, vestiti, cure mediche e accompagnano i migranti sui bus diretti alla capitale austriaca. Noi prendiamo un treno e arrivati a Vienna vediamo la stazione spaccata: una parte non funziona per gli arrivi e le partenze, ma è riservata e attrezzata per l’arrivo dei rifugiati. Ci si muove con difficoltà, ci sono molte persone, i bimbi giocano e piangono, c’è chi litiga, c’è chi si lava con quel poco di acqua che può fornire una fontanella, chi si è sdraiato in una tenda fuori la stazione, chi si pettina o si fa la barba. E per un momento mi fermo e vedo una donna che è arrivata così: in due. La guardo mentre chiede omogeneizzati e latte: è truccata, col velo blu, fiera, bellissima, e con in braccio il bambino. La pietà di Michelangelo.

Mi faccio strada tra chi, nell’attesa, si è seduto con i bambini su un telo e li fa giocare con le tempere, poi vedo arrivare un volontario travestito da pupazzo con le orecchie da cane e le mani colme di caramelle. E cantando si avvicina ad un bimba che lo guarda come fosse Babbo Natale, lo abbraccia e gli dà un bacino sul muso. Qualcun altro si è creato casa tra i sedili della stazione e aspetta perché in giornata, ciclicamente, arrivano autobus dalla frontiera per lo smistamento nei centri di accoglienza. E la giostra ricomincia.

Che poi “giostra”, mica tanto. Ricordo che lungo il tragitto un signore mi ha detto: “Non siamo qui per divertimento, siamo rifugiati”. E in quella frase c’era tutto, c’era la certezza del diritto che ho visto farsi materia in ogni gesto di normalità: c’era la certezza nella lama di un rasoio che taglia la barba, nella necessità di proteggere i bambini, nella bellezza di una madre. La certezza di una risata dopo una figura di merda.