Tutti – o, almeno, la maggior parte di noi – vorremmo vivere in un mondo più civile, in un mondo nel quale si ha più rispetto gli uni degli altri, in un mondo nel quale gli ultimi sono trattati come i primi, in un mondo nel quale non ci sono “diversi” e nessuno è discriminato per il suo aspetto fisico, per quello in cui crede, per le sue idee, per la sua condizione di salute o per le sue abitudini sessuali, in un mondo nel quale la violenza verbale, tutta, inclusa quella online, è sostituita dall’educazione.
E tutti i governi – o almeno la più parte – hanno, di conseguenza, l’ambizione, il compito, la funzione e la responsabilità di assumere decisioni e dettare regole capaci di dar corpo a questi aneliti.
Il punto è fino a che punto è giusto che i governi si spingano nel tentativo di bandire la violenza verbale – e non i crimini qualunque essi siano – da un universo variegato, fluido, eterogeneo quanto l’intera umanità come il web.
Ieri il Parlamento francese si è spinto molto in là approvando una legge che stabilisce che i gestori delle grandi piattaforme di aggregazione di contenuti come, per intenderci, Youtube, Facebook o Twitter, i gestori dei motori di ricerca e i gestori di siti internet che superano taluni limiti dimensionali dovranno rimuovere qualsiasi contenuto loro segnalato come le incitazioni all’odio, alla violenza, le ingiurie a carattere razzista o religioso.
E dovranno farlo entro ventiquattro ore dietro segnalazione di chicchessia, si tratti di un utente qualsiasi, di un’associazione, delle forze dell’ordine o di un’Autorità amministrativa.
Non servirà, insomma, un ordine di un giudice che pure, ovviamente, potrà emetterlo.
E la stessa legge aggiunge che qualora il contenuto abbia matrice terroristica o pedopornografica, all’obbligo di rimozione, oscuramento o disindicizzazione del contenuto occorrerà adempiere entro un’ora.
Le sanzioni per chi non adempie arrivano fino al 4% del fatturato globale annuo con un tetto di venti milioni di euro.
La legge è – perché se ci si gira attorno si rischia di non far passare il messaggio – un caso di scuola della peggiore risposta possibile a un fenomeno pure evidentemente reale e sotto gli occhi di tutti.
E lo è sin dalla definizione del terreno di gioco nel quale si ritrovano mischiati e costretti nello stesso campo sotto il titolo “legge finalizzata a lottare contro i contenuti di odio su Internet”, fenomeni che poco o niente hanno in comune come la pedopornografia, il terrorismo, l’antisemitismo, la pubblicazione di contenuti manifestamente illeciti, magari perché diffamatori, e la pubblicazione di espressioni suscettibili di incitare alla violenza.
È uno zibaldone tanto eterogeneo davanti al quale, qualsiasi risposta normativa omogenea come quella del Parlamento francese, è evidentemente sbagliata nel metodo prima ancora che nel merito esattamente come lo sarebbe pensare di reprimere con le stesse sanzioni il superamento del limite di velocità di cinque chilometri e l’omicidio stradale.
Anzi di più perché a differenza dell’utilizzo di parole d’odio online, il superamento del limite di velocità è un fatto obiettivo, oggetto di un esplicito divieto.
In una legge non si può confondere ciò che è reato da ciò che è maleducazione, degenerazione culturale o anche violenza gratuita.
E c’è poi, ma solo per restare in superficie rispetto a una legge straordinariamente articolata e complessa che merita di essere letta e riletta, analizzata e vivisezionata come si fa con un virus nel tentativo di trovarne il vaccino ed evitare che si diffonda, la questione probabilmente più importante di tutte: i tempi previsti per l’adempimento dell’obbligo di rimozione e la dinamica diffusa e indiscriminata della segnalazione che fa scattare l’obbligo consegnano, di fatto, ai gestori delle grandi piattaforme di contenuti online un ruolo che non appartiene loro e non deve appartenere loro, il ruolo di arbitri della libertà di parola sul web.
Saranno – ancora di più di quanto non stia già avvenendo proprio in conseguenze di spinte politiche non troppo diverse da quelle che animano la legge francese – Google, Facebook, Twitter e gli altri a decidere chi può dire cosa online, a stabilire quando il confine dell’educazione verbale deve considerarsi superato, in quali contesti e in relazione a quali temi esiste una “licenza verbale” che autorizza all’utilizzo di espressioni che, magari, altrove potrebbero risultare censurabili e quali sono i valori della nostra società in relazione alla cui tutela è necessario essere più rigorosi.
Si tratta di una scelta democraticamente insostenibile nel metodo e nel merito.
Nel metodo perché questo, in democrazia, è e non può che essere esclusivamente il compito dei giudici che, peraltro, sono chiamati a svolgerlo applicando la legge nel nome del popolo e non applicando delle condizioni generali di contratto nel nome degli azionisti o della pur legittima preoccupazione di sentirsi condannati a pagare venti milioni di euro se non rimuovono un video da venti secondi.
Nel merito perché tempi e forme imposte per l’adempimento dell’obbligo sono incompatibili con qualsiasi seria valutazione del contenuto e, soprattutto, con il modello di business dei giganti del web per i quali non c’è contenuto isolatamente considerato la cui pubblicazione giustifichi il rischio di vedersi infliggere una sanzione milionaria.
La legge del mercato, della borsa e degli azionisti, insomma, a differenza di quella che applicano i Giudici, nel dubbio, suggerirà sempre la rimozione.
È la strada sbagliata, una strada da non percorrere, una strada che legittima il principio secondo il quale il fine giustifica i mezzi e tradisce, in una manciata di parole, alcuni dei principi di diritto fondamentali sui quali le nostre democrazie sono costruite.