In pochissime ore Silvia Romano è passata da vittima di terrorismo islamico a vittima di terrorismo mediatico. Sono trascorsi solo tre giorni dal suo rientro in patria e l’attenzione mediatica scatenata dalla sua vicenda non sembra proprio rallentare. La storia la conosciamo: è quella di una ragazza semplice, poco più che ventenne, che parte da Milano con una Ong, va in Kenya, viene rapita e successivamente portata in Somalia; viene rilasciata dopo 18 mesi di prigionia.
Torna in patria e trova la sua Italia ben diversa da come l’aveva lasciata. Trova la sua patria in una emergenza sanitaria, ma anche in una sorta di isterismo collettivo. Seppur una parte di italiani esulta per la sua liberazione e lascia intravedere una sorta di umanità che la pandemia da Coronavirus ha riportato a galla, un’altra metà di italiani è totalmente in preda al delirio.
Come guelfi e ghibellini ci siamo divisi a metà. Sventolano ancora le bandiere del tricolore appese alle finestre ai balconi delle nostre case, ma su questa vicenda il patriottismo è decaduto. Mi ero illusa pensando che questo periodo di quarantena tra lutti e preoccupazioni ci avesse riavvicinati, avesse creato un popolo unito e coeso. Evidentemente mi sono sbagliata; avevo pensato che questo periodo poteva essere motivo di rinascita e che ci avrebbe consentito, accomunati dal dolore, di accantonare quella parte di cattiveria che la vita quasi ci impone per sopravvivere alla realtà quotidiana.
Invece siamo rimasti quelli di prima o forse peggiori. Ci siamo divisi a metà: da una parte i pro Silvia, felici del suo rientro, commossi fino alle lacrime in quell’abbraccio infinito con sua madre all’aeroporto di Ciampino e all’inchino di suo padre; dall’altra abbiamo quelli contro, che non le perdonano il sorriso, le dichiarazioni, le carezze sulla pancia, il vestito verde, l’orologio, la conversione all’Islam da lei stessa dichiarata assumendo il nome di Aisha.
Così non piace, non è la Silvia che volevano indietro. Le prime parole alla stampa di questa giovane donna erano rassicuranti, ha detto di stare bene mentalmente e fisicamente e questo proprio non è piaciuto. Dopo 18 mesi in Africa non puoi star così bene, devi necessariamente star male, mostrare i segni della prigionia, altrimenti sei un bluff. E qualcuno lo ha pensato veramente.
Allora partono gli insulti, le offese, una quantità di opinioni e commenti non richiesti. Si scatenano i social, anche se a quelli c’eravamo abituati. Mai avrei pensato però di riscontrare tanta cattiveria e livore in illustri giornalisti o storici dell’arte, psicologi, pseudo esperti che pretendono di raccontarci un Islam che hanno studiato su Wikipedia di cui non conoscono le nozioni basilari, e che tantomeno lo hanno mai vissuto.
Personaggi che pretendono con la logica occidentale di spiegare fatti e avvenimenti avvenuti in culture totalmente diverse, in cui la logica ha un altro senso. Solo Silvia potrà dirci cosa è accaduto veramente e le scelte individuali rimangono tali. In questo abbiamo tutti un grande dovere: quello di lasciarla in pace e restituirla alla vita che aveva lasciato, nella consapevolezza che non sarà mai più la stessa.
In questo eccesso mediatico abbiamo acquisito alcune certezze che pensavamo di aver superato.
Pensavo davvero che l’italiano medio avesse compreso almeno qualche dettaglio in più sull’Islam negli ultimi anni. In un pensiero utopico avevo davvero creduto che gli italiani fossero ormai lontani dal binomio musulmano=terrorista; avevo pensato che almeno sul nome degli abiti e dei copricapo delle donne musulmane avessero perlomeno capito le differenze, i colori i nomi. E invece il burqa, il chador, l’hijab e il jilbab diventano sinonimi.
Passi per l’italiano medio che in questo periodo ha altro a cui pensare; ma quando a fare queste valutazioni e questi errori madornali sono gli intellettuali nostrani, allora diventa pura ignoranza nel senso etimologico della parola. Di Silvia non è piaciuta la conversione come se fosse un argomento di gossip, un dibattito pubblico e non una scelta intima interiore, di cui si dovrebbe avere anche pudore a parlare. Chi siamo noi per mettere in discussione una scelta individuale? È tanto difficile per la nostra cultura accettare che una donna possa ‘liberamente’ decidere di convertirsi all’Islam e indossare un velo islamico?
Se porterà avanti la sua scelta non è affare nostro, tantomeno continuare a rapportarsi alla questione “Islam” come un blocco unitario. Sarebbe il caso di ricordare che nell’Islam ogni conversione è un ritorno alla sua origine. Il Corano afferma infatti la naturalità (“fitra”) dell’Islam Lo ricordano le parole di Allah e questo detto del Profeta: “Ogni bambino nasce musulmano (muslim = sottomesso a Dio), sono i suoi genitori che ne fanno un israelita, un cristiano, o uno zoroastriano”.
Le scelte di Silvia non sono affar nostro e se un giorno vorrà raccontarcele dovremo solo accettarle e rispettarle, liberandoci una volta per tutte di quel latente etnocentrismo che fa della nostra cultura quella superiore a tutte le altre, perché così non è.