Dopo un anno e mezzo di prigionia in un angolo a noi sperduto di mondo, penseresti che il peggio sia passato. Dopo essere stata trascinata via, forse tradita, da una banda armata di terroristi, penseresti che ora sei libera. Dopo aver pianto, ininterrottamente, per un mese intero; dopo aver girato quattro covi sempre avvinghiata da mitra e da cappucci, penseresti, è normale, finalmente.

Invece scopri che nel tuo Paese si aggira un branco; un’orda che a tutti livelli quando parla sputacchia odio. Si sbrodola senza vergogna, anzi superba, corrompendo il sacrosanto diritto d’opinione in un dovere di sproloquio.

E così, Silvia, rivolgendoti il bentornata che ogni essere umano, in quanto tale, merita, io spero che tu non legga queste mie parole. Io spero che tu abbia tappato i social network e tutti i giornali, che, anche quando incolpevoli, per mestiere rilanciano quell’odio.

Perché mai, è evidente, quando sognavi l’Italia avresti pensato a quanti euro corrisponde il valore della tua vita, alle minacce e alle calunnie, allo sbandieramento del tuo credo, a chi nella sacralità del Parlamento ti chiama terrorista, a chi tira in ballo i cassintegrati o il nazismo, alla scorta sotto casa, alla Santanché.

Io spero che tu non abbia sentito il tonfo di quella vigliacca, decerebrata, bottigliata alla tua finestra.

Ciò che invece ho smesso si sperare è che la situazione collettiva possa migliorare. Troppo avviluppata la spirale della rabbia e dell’ignoranza che come una trivella ha perforato i salotti tv, la stampa a caccia di titoli, una cretinata come Facebook. Alimentato da palesi interessi, il regresso di milioni di italiani è profondo, incontrovertibile, degenerante, perfino sprezzante perché radicato in convinzioni senza fondamento eppure granitiche.

Se esce una notizia si fermano al titolo e non la leggono. Le spiegazioni, non le leggono. Le smentite, non le leggono. Dimostri che è una fake news e non leggono. Scrivono e commentano tutto, ma non leggono niente.

Comincio a chiedermi se e per quanto sia ancora giusto continuare a tollerare l’intolleranza. È un paradosso, ma qui davvero non se ne può più.

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