A 64 anni e con una carriera professionale importante alle spalle, docente di matematica alla facoltà di Scienze dell’Università del Cairo e tra le attiviste più note d’Egitto, Laila Seif da alcuni giorni dorme su un marciapiede davanti alla prigione di Tora, alla periferia sud della capitale. La sua forma di protesta ha colpito tutto il Paese e la foto di lei con addosso abiti sporchi, distesa sopra dei cartoni, la testa appoggiata sulla sua borsa e la mascherina a coprirle naso e bocca, ha fatto il giro dei social diventando un manifesto del dissenso contro le autorità egiziane. Dentro quel carcere, in particolare nella famigerata Sezione II ‘Scorpion’ dedicata in parte ai prigionieri politici e ai reati di coscienza, dalla fine del settembre scorso è recluso suo figlio, Alaa Abdel Fattah, programmatore informatico e tra i leader più influenti della Rivoluzione di Piazza Tahrir del gennaio 2011.

Una famiglia di ‘rivoluzionari’ anti-regime la loro. Laila Seif, infatti, incontrò suo marito, Ahmed Seif al-Islam, negli anni ’70 proprio negli ambienti universitari dove lui era già leader di una cellula studentesca comunista. Alaa Abdel Fattah, 39 anni, dal 12 aprile scorso ha avviato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni imposte dai vertici della prigione e dal ministero dell’Interno. Celle fatiscenti, condizioni igieniche pessime, ma soprattutto l’impossibilità di accedere all’aria aperta, ricevere lettere, giornali, libri e altri beni di conforto dall’esterno.

A tutto questo, dal febbraio scorso, si è unita la minaccia pandemica e il rischio di contagio da Sars-Cov-2 che di fatto ha azzerato visite e contatti: “L’autorità carceraria ci impedisce di consegnare ad Alaa qualsiasi bene di conforto, comprese vitamine, soluzioni per la deidratazione dopo che lui ha avviato lo sciopero della fame. Siamo tutti molto preoccupati per la sua sorte”, attacca Mona Seif, sorella di Alaa e figlia della docente di matematica e rivoluzionaria.

Laila e Mona Seif nei mesi scorsi hanno manifestato davanti alla sede del ministero della Giustizia chiedendo di poter incontrare il loro congiunto, senza purtroppo ottenere alcuna risposta. La paura del coronavirus ha spinto le autorità a bloccare l’attività della giustizia. Quindi stop ai processi, addirittura alle udienze di rinnovo della custodia, e giro di vite pure per le visite in carcere e qualsiasi contatto con l’esterno. Questo vale per tutti i detenuti, ma per quelli politici c’è l’aggravante di non poter ricevere neppure beni di supporto, tra cui denaro, cibo, medicinali.

Mercoledì il Procuratore generale del Cairo, Hamada al-Sawy, ha affermato che ogni precauzione necessaria è stata assunta per proteggere i detenuti dalla diffusione del coronavirus: “Presto i detenuti potranno partecipare alle sessioni di rinnovo delle detenzioni in videoconferenza per limitare i contatti”, ha aggiunto al-Sawy. Di Alaa Abdel Fattah, così come di Patrick George Zaki, familiari e amici sanno poco o nulla. Le uniche, scarse, informazioni arrivano tramite i rispettivi avvocati.

Una situazione esplosa con la morte del giovane regista Shady Habash, ad inizio maggio, proprio dentro la prigione di Tora. Prima di questo evento tragico, il 12 aprile scorso, Alaa Abdel Fattah ha avviato lo sciopero della fame, nutrendosi solo di liquidi, prettamente acqua e succo d’arancia o soluzioni vitaminiche quando possibile. Così come accaduto nelle prigioni dell’Irlanda del Nord tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 con la protesta degli hungerstrikers di Bobby Sands, la scelta dello sciopero della fame ha spinto altri detenuti ad unirsi alla protesta. Mohamed Amashah, uno studente egiziano-americano, è uno di questi. Come lui anche Hamad Seddiq, detenuto nell’ala di massima sicurezza di Tora II, ha iniziato lo sciopero della fame il 18 aprile scorso.

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