Reportage da una delle zone più povere della città sullo Stretto dove circa 2500 famiglie vivono da decenni in tuguri di amianto tra rivoli di fogna, umidità e cumuli di immondizia. "Se qualcuno prende il virus è finita per tutti", dicono gli abitanti. Spiegando che il rischio epidemia è solo l'ultimo dei problemi in quella che è una vera e propria favela
“Se qualcuno prende il virus è finita per tutti: ha visto come viviamo? Tutti appiccicati”. L’allerta è della signora Giovanna, che parla mentre indica la fila di baracche subito dopo la sua. Poi punta il dito verso il basso, indica un tombino dal quale scorrono rivoli di fogna, uno in direzione di casa sua: “Non moriremo di coronavirus, forse, ma di puzza di fogna sicuro”. Siamo a Fondo Fucile, solo una delle 72 zone in cui vivono ammassate nelle storiche baracche di Messina più di 2500 famiglie. Una potenziale bomba pandemiologica: “Siamo nel 2020 e a Messina ci sono le baracche: nel 2020”, dice l’attore Nino Frassica, in un video in cui accoglie l’invito del comune per lanciare una raccolta fondi: “Ci sono 2500 famiglie, forse di più – continua il comico messinese -. Dobbiamo intervenire urgentemente, un solo positivo per creare una strage”.
“Finora nessuno è stato contagiato ma se si dovesse verificare stiamo mettendo a punto un piano di evacuazione”, spiega Marcello Scurria, presidente di A.Ris.Me, l’azienda del Comune per il risanamento voluta dal sindaco Cateno De Luca. “Abbiamo i finanziamenti pubblici per gli alloggi, con la raccolta fondi chiediamo un sostegno in una situazione di urgenza per sostenere questa gente per l’acquisto di kit igienici e tablet”, dice Scurria. “Guardi qui, da un lato abbiamo l’amianto, dall’altro i ratti”, indica un’altra abitante della baraccopoli, la signora Maria, che vive con figlie e nipoti alla fine del rivolo che fuoriesce dal tombino.
È la mattina di giovedì 7 maggio, un giorno di agitazione per i “baraccati” di Fondo Fucile, come li chiamano da sempre a Messina. Protezione civile, esercito, vigili e perfino il vicesindaco, Salvatore Mondello, tutti lì, dove si fa fatica a percepire la mano dello Stato, per la sanificazione. Sono stati avvertiti per tempo, ma al mattino c’è ancora chi chiede chiarimenti. “Mia moglie ha difficoltà respiratorie, come si fa?”. I funzionari del Comune devono spiegare che il prodotto che stanno spargendo non è nocivo per le persone: “Stiamo sanificando, per il loro bene lo facciamo, ma restano guardinghi”, sottolinea il presidente della società comunale. L’attenzione della politica – di solito concentrata solo in periodi elettorali – da queste parti è vissuta sempre con diffidenza: “Va bene la disinfestazione ma questa immondizia quando la levate?”, la signora Santa lo chiede mano sul fianco alla squadra comunale, indicando un ammasso di immondizia, due metri circa di altezza e dieci di estensione: i rifiuti sono tutti a ridosso di un’altra fila di baracche. Viste dall’alto formano un tappeto di amianto, interrotto da strade comunali, perfino da quella centrale che porta dritto all’autostrada. Da un lato e dall’altro della strada: proprio il muro che costeggia la grande arteria pre autostrada è un domino di baracche che termina solo quando iniziano le mura del Policlinico, la più grande struttura ospedaliera di tutta la provincia, sorta come cattedrale nel deserto, immersa com’è tra favelas ed edifici popolari.
Mentre il grosso della baraccopoli di Fondo Fucile inizia proprio a ridosso di una scuola, attaccata alle mura dell’Istituto comprensivo Albino Luciani. Lì, a ridosso di uno dei pochissimi baluardi dello Stato, parte il rivolo di fogna che dall’alto dell’ammasso di baracche si fa strada verso un tortuoso e stretto percorso che a stento crea lo spazio per passare tra una baracca e l’altra. È lì che si inoltrano gli uomini della Protezione civile, con le tute bianche e la pompa pronta a spruzzare il disinfettante. Che disinfetta ma non risolve il rivolo che dalla casa di Giovanna scorre fino a casa di Maria e le sue figli. Tutte chiuse in due stanze, più la cucina: “Entri, la prego, guardi quanta umidità nel tetto, ma anche qui in basso, così viviamo in sette, con la pensione del mio defunto marito: 500 euro”.
Così è la quarantena nelle baracche di Messina, tra rivoli di fogna, amianto, umidità, cumuli di immondizia e una distanza sociale impossibile da praticare, anche volendo. Uno sviluppo urbanistico quello della terza città della Sicilia che non teme confronti con le favelas brasiliane: “Dall’inizio della pandemia abbiamo distribuito kit con mascherine e gel disinfettante prodotto assieme all’università. Adesso abbiamo già pronto un albergo tra i più ampi in città – l’Hotel Europa – per un’eventuale evacuazione”, sottolinea Scurria. Mentre arriva la macchina dell’espurgo del Comune per sistemare la fogna: “Abbiamo provveduto subito e così faremo per tutta l’immondizia”, assicura il vicesindaco Mondello.
Eppure le baracche non dovevano esserci più, così aveva promesso il sindaco solo la scorsa estate, annunciando le sue dimissioni nel caso non fosse riuscito a risolvere l’annosa questione dello sbaraccamento. I toni di De Luca – s’è visto con la quarantena – sono sempre roboanti, ma il fenomeno urbanistico di estrema povertà a Messina è molto complesso e ha origine molto antiche. Risalgono addirittura al periodo post terremoto del 1908. Di baracche sorte a causa della distruzione del grande evento tellurico non ce ne sono più, ma in quel periodo ha avuto origine quella che in città viene definita una vera e propria “cultura della baracca”: “Da quarant’anni sono qui ad aspettare un alloggio popolare”, grida una signora alla finestra della sua fatiscente dimora, scorgendo il passaggio del vicesindaco. Ma subito dalla finestra accanto un’altra voce si innalza per smentirla: “Ed è da 40 anni che si lamenta appena vede un politico ma ogni volta che le hanno dato una casa, l’ha rifiutata”. “Non c’è altra soluzione che la demolizione”, allarga le braccia il politico. Assegnare la casa popolare, poi demolire la baracca, prima cioè che venga rioccupata da un estraneo o anche dagli stessi figli di chi ha avuto un alloggio comunale, così che ricominci la trafila per l’assegnazione: è questa la cultura della baracca, il fenomeno inarrestabile che al netto dell’inerzia dei tanti politici che si sono susseguiti in un secolo, blocca il risanamento. “Queste sono zone a rischio ma il 95 percento degli abitanti sono persone perbene – spiega Scurria – e proprio per questo l’intervento dello Stato, così come le donazioni, sono ancora più urgenti in queste zone di povertà estrema”.
Ma non solo. Anche nel caso della demolizione, in pochi giorni la baracca è stata semplicemente ricostruita: “Sono 64 anni che vivo qui e a questo punto non vedo perché dovrei andarmene”, il signor Antonio, 66 anni, alza le spalle. Vive con la moglie a Sottomontagna, un’altra delle 72 zone, stavolta a ridosso del centro cittadino. Ma la sua baracca, d’altronde, è diversa: “La rifaccio ogni anno, venga a vedere”. Fuori fatiscente, dentro un arredamento molto confortevole e due grandi televisori al plasma: “Sono venuto a vivere qui con i miei genitori che avevo due anni. Ora dopo anni di lavoro come operaio nei cantieri navali Rodriguez, sono in pensione: se vado via, dove mi mandano?”. Eppure la sua come quelle vicine sorgono in strade comunali interamente occupate da “abitazioni” abusive. Un’intera via, per esempio, a Mangialupi, è stata completamente divorata dalla favela siciliana, risultando ora solo sulle mappe comunali: sarebbe via Gaetano Alessi ma nessuno la conosce perché di fatto non esiste più. Una “cultura”, lì dove lo Stato manca, che ha trovato senza dubbio un suo equilibrio: sul tappeto di amianto, spiccano le antenne satellitari e i condizionatori. Negli spazi scarsi tra una porta e l’altra sono tanti i mezzi a due ruote. Qualcuno anche completamente smontato. E tutti, grosso modo, hanno un cane: “Bello, come si chiama?”, si prova a chiedere, ma la risposta è perlomeno curiosa: “Aspetti che chiedo a mio marito”.