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di Enrico Picone
Il Covid-19 si è portato via anche le chiacchiere sportive che ci intrattenevano con il gusto della competizione. Restano domande che in tempi di pace quasi mai trovano una risposta e che tornano alla mente quando siamo privati di qualcosa: “Perché amo il calcio?”. Lo scopo di porci una domanda simile in un momento di incertezza è quello di recuperare una delle poche cose certe della vita: la passione per la squadra che amo. Dobbiamo tornare a sentire il tifo che in molti di noi si è assopito tra noia e dispiaceri.
Per questo ci occorre fare un salto indietro nel tempo. Nulla di eccezionale, è sufficiente fermarsi all’anno 2016, quando il Leicester di Claudio Ranieri, l’Italia di Antonio Conte e l’Islanda di Heimir Hallgrímsson compirono tre grandiosi imprese, ma non tutte storiche. Perché è inutile negarlo, nel calcio la storia la scrivi solo se fai risultato. Ci ricordano che il parallelismo tra il calcio dei petrodollari e il calcio dei comuni mortali non si compie solo nell’ambigua questione del Fair Play finanziario, ma trova una romantica rappresentazione sul campo di gioco.
Il 2016 ha visto trionfare il Leicester nel campionato più ricco e competitivo al mondo. Una squadra che la stagione precedente aveva lottato per la salvezza dopo dieci anni di assenza dalla Premier, e che tantomeno è mai stata coinvolta nello scialacquamento imbarazzante dei milioni spesi sul mercato. Ad alzare la coppa non è stato Aguero né tantomeno Pogba, bensì Vardy Mahrez e gli altri protagonisti che vantano stipendi da massima competizione ma che non sbalordiscono in confronto a quelli di Messi e Ronaldo.
L’Italia di Conte si è presentata agli Europei con Emanuele Giaccherini, e proprio lui ci ha fatto alzare dal divano per accompagnarlo verso la porta di Courtois. Che sofferenza con l’Ucraina, ma che gloria contro la Spagna. Poi i rigori scellerati di Zaza e Pellè, entrati a gamba tesa sul destino della Nazionale che nei sarebbe poi svanita nel suo medioevo contro ogni previsione.
E poi l’Islanda. L’haka dei giocatori dopo aver conquistato i quarti battendo l’Inghilterra è stata la dimostrazione che il rapporto con la propria nazionale può conoscere forme commoventi. Chissà quanti conoscenti diretti dei giocatori dovevano esserci in quella bolgia rossoblù, che fa pensare più a un rapporto di vicinato che non di vicinanza con la propria squadra.
Il calcio mi riguarda come cittadino in quanto fenomeno sociale intrecciato innegabilmente con la nostra vita politica, economica e culturale. Non si può pretendere di lasciare la politica fuori da esso, perché è storicamente anche un fatto politico. Il mondiale 1998 volle significare la vittoria di una nazionale “black-blanc-beur”. Oggi l’integrazione appare quasi come un miraggio, e i calciatori lanciano appelli affinché il calcio resti incontaminato da ogni ingerenza politica. E se la soluzione fosse quella di appellarsi alla politica affinché si riconosca che il calcio, proprio perché fenomeno politico e sociale, vuole fondarsi sui principi di eguaglianza e solidarietà?
Nel 2015 a Wembley, quando ancora resisteva l’etichetta “generazione Bataclan”, gli inglesi cantavano la Marsigliese a fianco dei francesi prima del match. Un momento toccante in cui venne messa da parte la rivalità culturale tra le due nazioni. Eppure a Euro 2016 gli scontri di Marsiglia e Lilla significarono un’altra occasiona persa: quella di unire il popolo europeo attorno al dolore e alle paure del terrorismo.
Il calcio è un fenomeno umano, e come tale può metterci contro, ma si è fatto tanto e si può fare ancora di più per preservarlo nella giustezza politica, sociale e sportiva. In fondo, amo il calcio perché mi consente di rispettare l’avversario, perché ho una maglia con cui asciugare lacrime di gioia e di dolore, perché mi ha dato idoli da venerare e modelli da seguire, perché mi piace cantare stonando, perché è un gioco stracolmo di metafore sulla vita che non mi stancano mai. Andrà tutto bene, ma quando arriverà il momento, facciamoci trovare pronti.