Società

Coronavirus, quel che conta non è il futuro ma tornare alla normalità

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di Andrea Taffi

Siamo nella fase 2 bis, il nuovo passo verso la normalità, una normalità che è lontana, certo, ancora difficile da raggiungere appieno, vero, ma che c’è. È là in fondo, e la vediamo, la aneliamo. Lo so: è una normalità filtrata, artefatta da mascherine e distanziamento sociale, da preoccupazione e da senso di responsabilità. Ma è lo stesso un deciso (decisivo?) passo in avanti, un passo che fino a un mese fa sembrava impossibile da fare.

Questo nuovo stato sociale (mi si passi il termine) è ancora privo di abbracci, di strette di mano; è, invece, pieno di caffè sorbiti in piedi e velocemente, di file fuori dai negozi; è fatto di cene per pochi consumate in ristoranti dove si sta larghi, anche in quelli più piccoli; è fatto di spiagge libere da prenotare, di ombrelloni e di lettini distanti, di controllori attenti e inflessibili; è fatta, questa nuova normalità, di aerei e di navi con pochi turisti, tutti sani e certificati. Ma è una normalità fatta anche di Covid-19.

Sì, perché i medici e i politici ci hanno detto che bisognerà convivere col virus, e anche a lungo. E questa forzata convivenza ci renderà (ci dovrà rendere) attenti, consapevoli dei pericoli, delle ricadute. Ma non importa, perché se (ancora per un po’) non si potrà avere il mondo di prima, possiamo però averne una specie, una copia, anche se con tante limitazioni, con tante attenzioni in più. Un mondo, però, che, al netto di tutto questo, vogliamo che (almeno in astratto) sia fatto di tutto quello che c’era prima.

Ecco, secondo me è questo che, al di là di tutto, conta alla fine. Ed è proprio a questo nuovo mondo che ho pensato stamattina, quando, inebriato da questa fase 2 bis, percorrendo la solita strada per andare a lavoro, ho sentito una voce, una frase, che non sentivo da tempo, esattamente dal giorno dell’inizio delle limitazioni alla nostra libertà di movimento, dal giorno del tutto chiuso, del tutti in casa.

Quella frase diceva “magari dopo” ed era pronunciata da un barbone, uno che, prima del coronavirus, stava sempre vicino a un grande negozio di abbigliamento, a fianco di un bar sempre molto frequentato. Questi due esercizi commerciali hanno riaperto e il barbone è tornato anche lui a chiedere l’elemosina nelle vicinanze, è tornato a lavorare, a fare quello che faceva prima. E come tutti noi anche lui ha indossato la mascherina e i guanti, ha mantenuto la distanza di sicurezza nel chiedere una monetina e nel dire a chi non l’aveva data la sua solita frase: magari dopo, appunto.

Potrà sembrare strano, ma quando ho sentito quel barbone pronunciare quella frase, quando l’ho rivisto al suo solito posto, ho percepito davvero e forte il ritorno alla normalità che tanto aspettavo, anche se siamo distanti, se indossiamo mascherine e guanti, se abbiamo un po’ di paura per la nostra salute, per l’economia domestica e per quella del nostro Paese. Prima di entrare a lavoro, ho raggiunto il barbone e gli ho dato una moneta, perché la normalità alla quale quel gesto mi faceva pensare non doveva essere dopo, ma subito, in quel momento, nel mio, nel nostro futuro prossimo.

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