Ha lavorato con Marco Ferreri, Elio Petri, Louis Malle, Jean-Luc Godard, Nanni Moretti. Con il ruolo del pontefice in Habemus Papa vinse un David di Donatello
Adieu Michel Piccoli. Il leggendario attore francese, interprete dei più bei film di Luis Bunuel e Marco Ferreri, è morto a 94 anni il 12 maggio scorso. Ad annunciare la sua scomparsa sono stati i familiari con un comunicato alle agenzie di stampa francesi. Timido figlio d’arte, papà violinista di origine italiana, mamma una pianista francese, Piccoli era nato a Parigi nel dicembre del 1925. Famiglia borghese da 13esimo arrondissement, scoprì il teatro prestissimo a 9 anni e ne comprese la totalizzante vocazione durante l’adolescenza.
È la seconda guerra mondiale a frenare ogni progetto di vita artistica. Si rifugia correndo in bicicletta nel Correze, ad oltre 300 chilometri da Parigi. Incontra rifugiati ebrei, ascolta i discorsi di Hitler, capisce la tragedia che sta accadendo alla sua nazione e da lì nasce quell’impegno politico socialista che porterà con sé intonso fino agli ultimi anni della sua esistenza. Il debutto al cinema è nel 1945 con Sortilege di Christian-Jaque dove interpreta il piccolissimo ruolo di un abitante di un villaggio. Poi ancora nel ’49 alla corte di Louis Daquin, regista comunista che lo fa recitare in Le point du jour. Anche se nel primo dopoguerra e nei successivi anni cinquanta Piccoli diventerà un importante attore di teatro tanto che oltre a recitare in prestigiose compagnie parigine, e in improvvisate cooperative di lavoratori dell’epoca, testi di Beckett e Ionesco, incontrerà grandi registi francesi e l’immarcescibile Peter Brook per il quale esordì in un suo il giardino dei ciliegi (“mi confessò che mi aveva chiamato per sostituire un altro attore”).
Ma il gioco (dell’attore) per un già trentenne Piccoli è fatto. Il primo vero titolo al cinema che lo vede protagonista è French Cancan di Jean Renoir nel 1954. Sempre in quell’anno sposa la collega Eleonore Hirt, dalla quale si separerà nel 1966, quando sposerà la cantante Juliette Greco. Rigoroso, ironico, in certi momenti perfino surreale ed astratto, Piccoli si fa tentare anche dalla tv, ma è l’incontro con Luis Bunuel nel 1956 a dare un ulteriore scossone alla sua vita. Ne La selva dei dannati Piccoli interpreta un prete in fuga durante una rivoluzione. Lui, proveniente da una famiglia di cattolici praticanti, incontra l’ateo “per grazia di Dio” e per don Luis recita il ruolo di un prete che come gli altri protagonisti del film si spoglia di ruoli e identità precostituiti.
È l’inizio di un sodalizio anche personale intenso e sincero, come accadrà con Marco Ferreri dieci anni dopo. Ma è anche un momento della storia del cinema dove stanno per avvenire cambiamenti epocali. Piccoli sale sul carro di uno sperimentatore concettuale e culturale come Bunuel (che negli anni sessanta e settanta affermerà la sua voce atipica e anticonformista rispetto al mercato industriale del cinema), così come ne Il disprezzo di Godard (1962), uno dei film manifesto della Nouvelle Vague, altro punto di rottura sofisticato rispetto alla norma (che in Francia era il cinema di papà cioè della tradizione di sinistra, modello fronte popolare anni trenta). Piccoli diventa così un’icona ribelle, avventurosa, talvolta silente e idiosincratica, di tutto quel cinema anarchico e surreale che è poi stato letto come “di sinistra” con una semplificazione degna di un bignami da prima elementare.
Recita per la Varda come per Costa-Gavras, per Melville come per Roger Vadim. Piccoli rimescola le carte in un’epoca di rivoluzioni visive, espressive, artistiche. Più che desiderio d’appartenenza politica (che tanto c’era) è l’idea di libertà nell’interpretare ruoli mai scontati, personaggi complessi e inattesi, a governare le sue scelte. Così a cavallo dell’anno epocale del 1968 è prima l’ispettore Ginko nel Diabolik di Mario Bava come il protagonista di un capolavoro come Dillinger è morto di Marco Ferreri.
Un borghese disilluso, annoiato, solitario per quasi tutto il film, dentro ad un appartamento, pervaso da una titillante ossessione continua, a maneggiare quella pistola rossa a pois bianchi, e quella cena in preparazione proprio della grande abbuffata ferreriana che verrà di lì a poco. Piccoli è uno splendido quarantenne che recita in surplace, come se fosse sempre un “se stesso” del presente, declinato in mille impercettibili assurde sfaccettature del quotidiano. Bunuel gli offre una sequenza di titoli che fanno la storia: cliente di un bordello in dolcevita con la Deneuve in Bella di giorno; ne La via Lattea, dove è il marchese De Sade; Il fascino discreto della borghesia; Il fantasma della libertà.
Bunuel offre a Piccoli dei ruoli “liberatori” che lui interpreta con evidente piacere. Ruoli beffardi, divorati dai loro impulsi, da “borghese frustrato e libidinoso”, amava ricordare il regista spagnolo. Tra il 1969 e l’81 interpreta ben sette film per Ferreri. Il clou nel suicidio collettivo per eccessivo ingurgitare di cibo, assieme a Philippe Noiret, Ugo Tognazzi e Marcello Mastroianni, de La grande abbuffata. Piccoli morirà nel film dopo una crisi di aerofagia. Il film di Ferreri, in concorso a Cannes nel 1972, fece scalpore e suscitò parecchio scandalo. La stigmatizzazione della decadenza delle società moderne, questa alienazione surreale, inquietante e carnale, incorona Piccoli come interprete che si scatena tra i meandri della follia quotidiana. Per capire poi che questo leggendario attore possedeva tra le corde del suo talento totale per il cinema anche quelle più realistiche e passionali ecco L’amico di famiglia di Chabrol nel 1973 (le scene di accoppiamento con Stephan Audran nel bosco sono memorabili) e i quattro film con Claude Sautet, sempre negli anni settanta: L’amante, Il commissario Pellissier, Tre amici, le moglie e /affettuosamente) le altre – dove è Francois, un medico, che viene tradito dalla moglie ripetutamente (forse è l’unico film in cui accade per un suo personaggio); e Mado (dove interpreta uno speculatore finanziario che perde la testa per una prostituta). Piccoli continuerà ancora sulla falsariga tra astrazione e realismo per il resto della sua carriera tra gli anni ottanta, novanta e duemila.
Lavora con Marco Bellocchio, Claude Lelouch, Leos Carax, Louis Malle. Per Jacques Rivette nel 1991 con La belle noiseuse è un anziano pittore che spoglia Emmanuelle Beart. Per Sergio Castellitto è lo zio Tony in Libero burro (1999). Con Manoel De Oliveira vive un sodalizio di incommensurabile valore con diversi titoli tra cui lo struggente Ritorno a casa (2001). Nel 2011 l’interpretazione più commovente, personale, sentita in Habemus papam di Nanni Moretti, dove veste i panni sacrali del cardinale Melville che rinuncia all’investitura di nuovo papa fuggendo con una compagnia teatrale. Il cerchio dell’attore si chiude nell’olimpo dei grandi, senza però aver mai recitato ad Hollywood. “In America non hanno bisogno degli attori europei”, spiegò in una bella intervista a Marco Luceri. “Tra gli anni Trenta e i Quaranta del secolo scorso hanno avuto una generazione di attori sublimi. Ora hanno solo marionette. Sublimi anch’esse, certo, ma sempre marionette. E poi il pubblico americano, non amando affatto gli attori che non pronunciano bene la loro lingua, non vogliono altro che film americani. Hollywood è una gigantesca macchina produttiva e di potere, ma è molto autoreferenziale. E ciò si riflette anche nella distribuzione dei film stranieri, che negli Usa è quasi nulla. In Francia invece si possono vedere film provenienti da tutto il mondo. Questo di certo non aiuta il commercio del cinema francese, ma fa molto bene all’intelletto”.