Sono anni che si dibatte sulle imprese che hanno sede all’estero, e che in tal modo sfruttano il meglio offerto dai vari paesi, tra cui i sistemi di tassazione agevolata.
Il problema è che siamo sempre al punto di partenza: le imprese ‘cattive’ sfruttano le opportunità offerte dalla globalizzazione. Quindi, di tanto in tanto, ci ricordiamo che esiste il problema sol perché qualche impresa continua, come ha sempre fatto, ad approfittare di questo sistema economico globalizzato.
Una volta esaurito lo spazio di visibilità di alcuni casi concreti, si accetta bene o male che esperti e politici vadano in televisione o rilascino interviste ai giornali su quanto sia bella e conveniente la globalizzazione.
Sono decenni che non ci spostiamo di un centimetro da questo stato di cose. In pratica, siamo sempre alla fase uno: la lamentela e l’accettazione.
Oggi ad accendere gli animi è il caso dell’accesso da parte di Fca Italy alle garanzie dello Stato sui prestiti alle imprese messe a disposizione dal Decreto Liquidità.
Chi si indigna per l’accesso a tale aiuto, da parte della società, sostiene che il gruppo Fca nel suo complesso non ha problemi di liquidità e che Fca Italy, che è una controllata del gruppo con sede a Torino, non necessariamente rappresenti gli interessi italiani, e che è effettivamente difficile comprendere quali dinamiche societarie e finanziarie si celino dietro alla richiesta di prestito, ossia che fine faranno i soldi. Ci si chiede anche se la società sarà effettivamente in grado di restituirli, altrimenti, come al solito, paghiamo noi.
Per contro, coloro che sono favorevoli ripetono il mantra a cui siamo ormai abituati, secondo cui il finanziamento salverà la filiera italiana, perché con questi soldi Fca Italy potrà pagare molti fornitori.
Ribattono così quelli che sono contro il prestito, evidenziando che negli ultimi 10 anni in Piemonte sono andati persi 12mila posti di lavoro nel campo automobilistico, e ciò per un motivo molto semplice: le imprese cercano di trarre il massimo profitto dalle proprie attività, e quindi delocalizzano dove la manodopera costa meno.
Il dibattito si è quindi arenato sulla solita irrisolta questione: perché aiutare chi se ne frega delle sorti dell’economia italiana? Perché rischiare di addossare ai contribuenti le perdite di una società di un gruppo internazionale che non ha problemi di liquidità?
Provocatoriamente direi che è giusto aiutarli, perché dopo decenni di lamentele non abbiamo modificato una virgola delle leggi in vigore che consentono ai gruppi internazionali di sfruttare tutte le opportunità della globalizzazione, mai messa seriamente in discussione dai politici.
Più seriamente direi che bisogna andare molto più a fondo e indagare sull’intricato rapporto tra mercato e leggi di mercato per potere arginare lo strapotere delle multinazionali. Perché il problema non è mica solo il finanziamento, ma anche la delocalizzazione delle lavorazioni in paesi dove la manodopera costa molto meno o dove magari si può inquinare di più. Vi è inoltre il problema dell’uso dei soldi presi in prestito, perché chi ha un minimo di conoscenza del funzionamento dei gruppi d’impresa, sa benissimo che tra le società del gruppo si possono instaurare rapporti di credito e di debito, tale per cui è praticamente impossibile comprendere quanto le perdite di una società controllata dipendano dal mercato o da scelte ben precise della controllante.
Il tema è quindi la regolamentazione normativa dei gruppi di società, nazionali ed internazionali che oggi hanno ampissimi margini di discrezionalità nel posizionare le pedine sulla scacchiera mondiale a proprio favore e a scapito dei paesi ospitanti.
E’ un problema vecchissimo, di cui ho ampiamente discusso nel mio libro Il ricatto dei mercati.
A questo punto, il suggerimento è di aprire un serio dibattito su questi temi.