Un magistrato isolato, delegittimato, tradito dai suoi stessi colleghi. Almeno mentre era in vita. Per la prima volta la verità sul trattamento riservato da buona parte della magistratura a Giovanni Falcone entra nelle stanze di Palazzo dei Marescialli. A 28 anni dalla strage di Capaci il plenum del Csm ha ricordato la figura del giudice palermitano. Il vicepresidente David Ermini ha definito la strage di Capaci come “uno dei momenti di massima violenza eversiva dell’attacco della mafia allo Stato”, insieme alla strage di via d’Amelio. “Giovanni Falcone è presente nella vita di ognuno di noi”, ha detto Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione.

I ricordi di Di Matteo e Ardita – Ma è con gli interventi di due consiglieri togati con alle spalle una lunga esperienza in prima linea nella lotta alla mafia che sono stati riportati i vari torti subiti da Falcone da parte dei suoi stessi colleghi. “A coloro che hanno perduto la loro vita per gli ideali di libertà e giustizia ai quali avevano improntato tutta la loro esistenza, dobbiamo il rispetto della memoria e della verità. Non sterili, e spesso finte, celebrazioni di facile retorica ma memoria e verità“, ha detto Nino Di Matteo. Per anni pm in prima linea nella lotta a Cosa nostra, Di Matteo è più volte finito sotto il fuoco incrociato di polemiche politiche legate alle inchieste che ha condotto: una su tutte quella sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra con lo scontro frontale scoppiato tra il Quirinale di Giorgio Napolitano e la procura di Palermo. “Dobbiamo essere coerenti e non ipocriti ricordando Falcone”, ha commentato poco dopo Sebastiano Ardita, consigliere togato di Autonomia e Indipendenza (la stessa corrente che ha eletto Di Matteo, candidato indipendente), già procuratore aggiunto a Catania e Messina e investigatore esperto dei legami tra criminalità organizzata e alta finanza.

Un momento delicato per le toghe – Il ricordo di Falcone al Csm arriva in un momento particolare per il mondo della magistratura, travolto dall’inchiesta di Perugia su Luca Palamara che ha portato alle dimissioni di cinque consiglieri di Palazzo dei Marescialli. Un sistema che decideva nomine e incarichi e arrivava fin dentro il ministero della giustizia: il capo di gabinetto di Alfonso Bonafede, intercettato con lo stesso Palamara, è stato costretto alle dimissioni solo pochi giorni fa. È in questo contesto di veleni e ombre sul mondo delle toghe che Di Matteo e Ardita hanno deciso di ricordare Falcone. Costringento il Csm a guardare il passato per come correttamente si è svolto. E quindi ricordando la continua delegittimazione tentata da un sistema di potere e legami trasversali. Una ragnatela che in tanti paragonano a quella di oggi.

“Fu delegittimano prima del tritolo mafioso” – “Memoria significa anche conoscenza e consapevolezza di un dato di fatto incontestabile: Giovanni Falcone, prima di essere ucciso dal tritolo mafioso, venne più volte delegittimato, umiliato e così di fatto isolato anche da una parte rilevante della Magistratura e del Consiglio Superiore”, ha ricordato ai suoi colleghi Di Matteo. “Quella di Giovanni Falcone fu una storia di solitudine, di sconfitte, di tradimenti subiti dentro e fuori la magistratura. Dovette difendersi dal Csm. Venne isolato, calunniato, accusato di costruire teoremi, mentre svelava i rapporti tra Cosa nostra ed il potere. Gli venne contestato protagonismo, presenza sui media, di collaborare col governo, non fu eletto al Csm”, ha detto invece Ardita.

La bocciatura del Csm – I riferimenti storici citati dai due togati oggi sono stati in gran parte rimossi. Per questo è utile ricordare come Falcone non fu certamente amato tra i suoi colleghi quando era in vita. “I nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati. Tanti furono gli attacchi e le sconfitte tanto che fu chiamato il giudice più trombato d’Italia e purtroppo lo è stato ed è stato lasciato solo”, ha ricordato la sorella Maria alla vigilia dell’anniversario numero 25 della strage di Capaci. Il fatto principale che testimonia la vera natura dei rapporti tra il giudice palermitano e l’organo di autogoverno delle toghe risale al gennaio del 1988. Poco dopo il Maxiprocesso, Antonino Caponnetto decise di tornare a Firenze. Falcone era il suo naturale successore alla guida dell’ufficio Istruzione di Palermo, cioè quello che è passato alla storia come il pool antimafia. Il 19 gennaio del 1988, però, alla fine di una lunga discussione, il Csm bocciò clamorosamente la sua candidatura, preferendogli Antonino Meli, magistrato più anziano ma completamente estraneo alle indagini antimafia. “Quando Giovanni Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Csm, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo”, è il modo con cui Paolo Borsellino ricostruirà quella vicenda, nel suo ultimo intervento pubblico il 25 giugno del 1992.

“Vittima di patologiche trame di potere” – “Questo – ha ricordato oggi Di Matteo – avvenne in ragione non solo di meschini sentimenti di invidia ma, ancor di più, di patologiche trame di potere connesse a fenomeni ancora attuali di collateralismo politico e di evidente degenerazione del sistema correntizio”. L’ex pm di Palermo ha poi fatto riferimento all’attuale momento che sta attraversando la magistratura italiana: “Anche per questo oggi questa istituzione Consiliare deve finalmente reagire, dimostrarsi in grado di sapersi mettere per sempre alle spalle pagine oscure, anche recenti, della sua storia”. Di Matteo ha anche trovato modo di ricordare a Palazzo dei Marescialli come sulla strage di Capaci ci siano ancora indagini in corso. Lo ha fatto ripetendo le due parole chiave del suo intervento: memoria e verità. “La verità – ha detto – è quella che è faticosamente emersa dalla storia dei processi celebratisi a Caltanissetta e a Palermo; quella che ha consentito di individuare i profili di molti dei responsabili mafiosi dell’attentato di Capaci. Ma è proprio da quegli atti processuali, dal lavoro di valorosi colleghi e coraggiosi investigatori, che emerge la necessità di proseguire in quel percorso di verità. Senza cedere alla tentazione dell’oblio, della rimozione, del timore delle conseguenze di quella ricerca”.

“Oggi col nuovo ordinamento Falcone non sarebbe quello che è stato” – Ardita, invece, ha ricordato ai colleghi che Falcone “subì le stesse critiche che oggi si contestano ai magistrati più esposti“. E quindi “se vogliamo indicarlo come esempio ai giovani, dobbiamo ricordare la sua vita come realmente si è svolta e prenderlo ad esempio essenzialmente per il suo coraggio. E poi ancora oggi dobbiamo difendere coloro che agiscono con coraggio, anche andando incontro a rischi, per affermare la verità“. Secondo l’ex procuratore aggiunto di Catania “dovremmo fare in modo che, se rinascesse, Falcone non si ritrovasse in quelle stesse condizioni. Ma ho motivo di temere che oggi, con la gerarchia del nuovo ordinamento, Falcone non potrebbe neppure essere quello che è stato. Questo dobbiamo dire e fare, se vogliamo rimanere distanti dall’ipocrisia di certe commemorazioni ufficiali, alle quali oramai alcuni di noi preferiscono non andare più”.

Gli attacchi dei colleghi – Insomma, per la prima volta nelle stanze dell’organo di autogoverno della magistratura è stato riportato un ricordo fedele delle difficoltà affrontate da Falcone in vita. Difficoltà spesso dovute alla contrapposizione della sua stessa categoria. A cominciare proprio dalla bocciatura a capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo nel 1988. Negli anni successivi andò anche peggio. Nel 1990 Falcone si candidò al Csm e dovette subire l’umiliazione di non essere eletto come rappresentante dei suoi stessi colleghi. Nel 1991 entrò effettivamente a Palazzo dei Marescialli, ma da accusato: venne convocato dopo che il Csm aver ricevuto l’esposto in cui Leoluca Orlando lo accusava, praticamente, di aver insabbiato le indagini sui delitti politici degli anni ’80. “Non si può andare avanti in questa maniera, è un linciaggio morale continuo. Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo“, disse in quell’occasione il giudice. Una frase diventata famosa. E che recentemente viene ripescata dai politici per attaccare il mondo della magistratura. Solo una delle tante distorsioni della memoria del giudice compiute dopo la sua morte.

Vittima delle correnti – L’apice degli attacchi pubblici a Falcone si registrò invece quando il giudice palermitano andò a lavorare al ministero della giustizia come direttore degli Affari Penali. “A Palermo ho edificato una stanza, una bella stanza. Ma è a Roma che devo andare se voglio costruire un palazzo”, spiegò ai giornalisti Francesco La Licata e Saverio Lodato che nel 1991 gli chiesero i motivi di quella partenza. Il palazzo era la Superprocura, cioè la procura nazionale Antimafia, l’ufficio centrale di coordinamento di tutte le indagini sulla criminalità organizzata ideato da Falcone nel periodo in via Arenula. Il magistrato palermitano era ovviamente il candidato naturale per guidare il nuovo organo inquirente. Ma anche lì le correnti del Csm si attivarono subito per sbarrargli la strada. Non fecero in tempo: prima dell’ennesimo tradimento dei colleghi arrivo il tritolo nascosto sotto l’asfalto di Capaci.

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