A Scampia metà dei bambini non ha le attrezzature per seguire la scuola via internet. A Milano una trans peruviuana racconta che per mangiare deve continuare a prostituirsi in casa, quindi “disinfetta i clienti”. Ad Avellino, una famiglia benestante si trova all’improvviso senza reddito e strangolata dalle rate dell’auto, dei mobili e delle vacanze. E poi famiglie con ragazzi disabili, genitori separati per cui diventa più difficile vedere i figli, immigrati intrappolati nella spirale “niente lavoro-niente permesso”. E ancora, malati di Covid-19 dimenticati in casa dalle autorità sanitarie col miraggio del tampone. O quelli che avevano aperto da poco un piccolo ristorante a conduzione familiare, un bar o un bed and breakfast in quella nova mecca del turismo nostrano che è Matera. E così via.
Sono i dimenticati del Covid-19, gli italiani fuori dai riflettori che hanno più sofferto il lockdown dovuto all’epidemia e ora fanno più fatica degli altri ad affrontare la fase due. Queste e altre storie sono raccolte nel numero di maggio, attualmente in edicola, del mensile FQ MillenniuM, diretto da Peter Gomez, dedicato al “sopravvivere alla fase 2”, facendo tesoro degli errori del passato. Dimenticati, perché Scampia è il simbolo di molte periferie (urbane e non) dove la scuola a distanza è un’illusione in famiglie dove mancano connessione, attrezzature tecnologiche e possibilità reale di seguire l’apprendimento dei figli. A muoversi, racconta FQ MillenniuM, sono allora le associazioni di quartiere, come il Coordinamento territoriale Scampia, che si sono inventati iniziative come “Adotta un amico”, in cui una famiglia messa meglio si fa carico di aiutare una famiglia messa peggio. Mentre i ragazzi dell’Istituto tecnico Galileo Ferraris hanno trasformato le lezioni di italiano in post su Instagram collegati a un blog, per garantire la massima possibilità di fruizione a tutti, anche con uno smartphone.
La solidarietà non arriva dappertutto, però. E se della situazione generale dei “sex worker” si è parlato, meno raccontato è il fatto che molte (o molti) di loro sono stati costretti a continuare a lavorare in casa, perché invisibili a ogni promessa di aiuto pubblico: “Mi pagano 30 euro, così per tre giorni posso mangiare. Gli dico niente baci in bocca e prima del rapporto li disinfetto come posso con il gel”, racconta Giulia, 30 anni, trans peruviana che vive in un bilocale al pianoterra nella periferia milanese. “Due mie amiche sono già morte di coronavirus, due trans come me. Loro avevano continuato a uscire, a lavorare fuori, dove ancora puoi incontrare qualche cliente”.
Non sono solo le persone lasciate ai margini e gli abitanti dei quartieri difficili a essere stati dimenticati. I gestori di attività come ristoranti, bar, negozi di parrucchieri sono rimasti senza un euro d’incasso da un giorno all’altro, e oggi fanno i conti con una riapertura stentata e difficile, soprattuto nelle aree del Nord più colpite dal coronavirus. Ma per quelle famiglie molte spese fisse sono rimaste. In particolare per quelle otto su 100 che in Italia hanno fatto ricorso al credito al consumo (dati Banca d’Italia), in pratica gli acquisti a rate, che non sono stati toccati dal provvedimento che dà la possibilità di chiedere la sospensione delle rate del mutuo sulla casa. “Cinquanta euro per i due smartphone, circa 300 per le vacanze dell’anno scorso, 200 per i mobili e 200 per l’auto”, elenca Marina, parrucchiera ad Avellino. L’alternativa, in attesa della riapertura? “Chiamare le clienti a casa e lavorare al nero”.
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