Il Covid-19 ci ha ricordato quanto sia importante tutelare la diversità biologica del Pianeta, dato che il 31% delle epidemie di malattie emergenti, come Ebola e Zika, è legato al cambiamento nell’uso del suolo causato dall’invasione umana delle foreste pluviali tropicali. Eppure la biodiversità è sempre più a rischio. Accade in tutto il mondo, dall’Amazzonia al Mediterraneo. Secondo i dati dell’Ipbes, il panel di ricerca delle Nazioni Unite dedicato alla biodiversità, tre quarti delle terre emerse sono stati significativamente alterati dall’uomo. Tra le cause più impattanti sugli habitat ci sono l’agricoltura e l’allevamento per l’industria.
Il 2020 avrebbe dovuto essere l’anno cruciale per il raggiungimento degli obiettivi decennali sulla conservazione della natura, ma così non è stato. Per quattro dei sei obiettivi della strategia Ue ci sono progressi modesti, negli ecosistemi agricoli e forestali la situazione della biodiversità è peggiorata dal 2010 a oggi, mentre solo una percentuale ridotta di specie (23%) e habitat protetti (16%) risulta in buono stato di conservazione. L’unico traguardo che probabilmente verrà raggiunto è la tutela di aree marine e terrestri. A evidenziarlo è il rapporto ‘Biodiversità a rischio’ di Legambiente, che traccia un quadro sullo stato di salute del nostro patrimonio naturalistico a partire dal Mediterraneo, riservando un focus speciale a delfini e squali, protagonisti di alcuni avvistamenti nel periodo di lockdown.
Gli obiettivi mancati – L’associazione lancia una road map post-2020 con dieci proposte sul contributo che l’Italia può dare al Piano strategico per la biodiversità del decennio 2020-2030. Per Legambiente il nostro Paese può e deve dare un importante contributo, rafforzando in primis la sua legislazione sulla tutela ambientale (in particolare le Direttive Habitat e Uccelli) e dando piena attuazione a Natura 2000, la più grande rete mondiale di zone protette. “Quanto avvenuto con il Covid-19 dovrebbe spingerci a una riflessione globale sull’urgenza di tutelare gli ecosistemi” dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente. Antonio Nicoletti, responsabile aree protette e biodiversità dell’associazione, ricorda alcuni passi ormai obbligati, come quelli di “incrementare la percentuale di aree naturali protette, marine e terrestri e porsi l’obiettivo di tutelare efficacemente il 30% del territorio nazionale entro il 2030”.
Mediterraneo osservato speciale, il dossier di Legambiente – Pur rappresentando lo 0,82% delle superfici marine e lo 0,32% del volume di tutti i mari del globo, il Mar Mediterraneo ospita oltre 12mila specie marine, tra il 4 e il 18% di tutte le specie marine viventi del Pianeta, moltissime delle quali endemiche. Le principali minacce sono rappresentate dall’eccessivo prelievo di pesca o sotto forma di by-catch (catture accessorie o accidentali durante pratiche di pesca indirizzate ad altre specie), dallo sviluppo urbano costiero, dall’inquinamento delle acque (tra cui il marine litter) e dalle modificazioni dell’habitat indotte dalle attività umane. Per diverse specie minacciate, come la cernia e lo sgombro, o a rischio come il nasello, è da tenere presente il loro interesse commerciale, che le rende più soggette a pressione e a un potenziale futuro declino. A squali e delfini, Legambiente dedica uno speciale focus all’interno del report. A fronte di una popolazione di Tursiopi di circa 10 mila individui in un’area che va dal Mar Ligure al Tirreno, dal Canale di Sicilia all’Adriatico, ogni anno sono circa 180 i delfini trovati morti lungo le coste italiane, vittime soprattutto di catture accidentali nelle attività di pesca a strascico o di piccola pesca. Secondo la ‘lista rossa’ del Mediterraneo, almeno il 53% di squali, razze e chimere è a rischio estinzione, tra loro palombo e spinarolo. Anche in questo caso tra gli impatti antropici diretti a cui sono maggiormente esposti i pesci cartilaginei ci sono le catture accidentali (o by-catch). Si stima che durante le abituali attività di pesca più dell’88% dei pescatori abbia catturato degli squali, rimasti in vita nel 75% dei casi. Un quadro preoccupante che si aggiunge a quello tracciato sullo stato di conservazione di flora e fauna. Sul fronte fauna, delle 672 specie di animali vertebrati italiani, sei si sono estinte in tempi recenti: lo storione, lo storione ladano, il gobbo rugginoso, la gru, la quaglia tridattila, il rinofolo di Blasius. Sono invece 161 quelle minacciate da estinzione, fra cui lo squalo volpe, l’anguilla, la trota mediterranea, il grifone, l’aquila di Bonelli, l’orso bruno. In pericolo 49 specie tra cui il delfino comune, il capodoglio, la tartaruga Caretta caretta e la gallina prataiola. Anche la flora italiana non è in buona salute: su 386 specie valutate, il 65% di quelle vascolari è infatti da considerarsi minacciato, così come il 55% delle specie non vascolari.
Il focus di Greenpeace sulla foresta amazzonica – Il quadro globale è molto preoccupante. Se quella amazzonica è la più grande foresta pluviale del Pianeta, casa di almeno 30mila specie di piante, di 30 milioni di specie animali e di tantissime specie ancora da scoprire, è anche vero che nei primi quattro mesi del 2020, la deforestazione è aumentata del 61% rispetto al 2019. Lo ricorda Greenpeace, spiegando che l’Amazzonia si è già ridotta del 15% rispetto alla sua estensione degli anni ’70, quando copriva oltre sei milioni di chilometri quadrati. “In Brasile, il Paese che ospita più della metà della foresta, oltre il 19% è scomparso. Di questo passo – spiega Greenpeace – si rischia di arrivare al punto di non ritorno climatico che potrebbe trasformare grandi regioni di questa foresta in un ecosistema più simile a quello di una savana, sebbene con molta meno biodiversità”. Tra le cause deforestazione, incendi, agricoltura e allevamenti intensivi, ma anche la costruzione di strade che rende le foreste di tutto il mondo più accessibili e vulnerabili, l’estrazione mineraria, di petrolio e di gas. “Alla luce dell’aumento del prezzo dell’oro causato dall’impatto della pandemia sul mercato globale – spiega Greenpeace – in alcuni aree dell’Amazzonia si sta assistendo ad una nuova corsa all’oro”.
Il ruolo dell’agricoltura e degli allevamenti intensivi – Un ruolo importante è quello giocato finora da agricoltura e allevamenti intensivi. A livello globale, infatti, dal 1970 a oggi il volume della produzione agricola è aumentato di circa il 300%, ma questo risultato è stato raggiunto senza preoccuparsi del suolo, dell’ambiente, dell’inquinamento e, quindi, della stessa salute umana. E oggi (secondo i dati delle Nazioni Unite) si paga il conto anche a livello economico: il degrado del suolo ha ridotto del 23% la produttività della superficie terrestre globale e fino a 577 miliardi di dollari in colture globali annuali sono a rischio per la scomparsa degli impollinatori. “Un aiuto alla natura può e deve arrivare proprio dall’agricoltura” dice Fausto Jori, amministratore delegato di NaturaSì, secondo cui “l’agricoltura può trasformarsi da causa della perdita di biodiversità a risorsa per proteggere la natura e, addirittura, in asset per la produzione”.
Se l’agricoltura tutela la biodiversità, l’esperienza di NaturaSì – Le infrastrutture verdi, costituite da siepi, boschi, filari di alberi, corsi d’acqua e piccole zone umide, sono un riparo importante per centinaia di specie viventi animali e vegetali. E questa ricca biodiversità naturale nei campi è anche un aiuto a chi coltiva con metodi naturali. Ed è la ragione per cui nelle cento aziende agricole biologiche e biodinamiche cerealicole (su 300 totali) della rete NaturaSì, gli spazi destinati a queste infrastrutture naturali coprono 3.600 ettari della superficie agricola. Un piccolo patrimonio di biodiversità che dà rifugio a impollinatori e insetti che contrastano i parassiti delle piante alimentari, come la crisopa, che mangia gli afidi e vive nelle siepi e in cui sono riapparsi piante e animali che non si vedevano da tempo”. Solo per citarne alcuni: il barbagianni, la testuggine palustre europea, la rarissima felce Marsilea. Ma a guadagnarne non è esclusivamente l’equilibrio ambientale e naturale: solo il lavoro degli insetti impollinatori vale nei campi europei 15 miliardi di euro l’anno e garantisce la riproduzione dell’84% delle piante coltivate.