In questa Giornata della legalità ricordiamo il 28° anniversario di Capaci, l’attentatuni con cui Cosa nostra sterminò Giovanni Falcone e la moglie, Francesca Morvillo, insieme ai giovani di scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.
Dalle esperienze di Falcone si ricavano insegnamenti preziosi, condensabili in un principio base: per ottenere risultati ci vuole “metodo”. Nel contrasto alla mafia (criminalità organizzata), metodo significa “organizzazione contro organizzazione”. Di qui l’intuizione di creare un pool di magistrati antimafia che operasse secondo i parametri della centralizzazione e specializzazione. Tutti i processi di mafia dovevano confluire nel pool (prima erano frantumati in mille rivoli non comunicanti, con totale dispersione dei dati); ed i magistrati del pool dovevano occuparsi soltanto di questi processi, in modo da approfondire sempre più il fenomeno. Nasce così il “maxiprocesso”: capolavoro del pool (Falcone ne era la punta) e svolta decisiva nella storia del nostro Paese. Per le giuste condanne (19 ergastoli e oltre 2600 anni di reclusione a mafiosi di ogni ordine e grado); ma soprattutto per il crollo del mito dell’invulnerabilità di Cosa nostra, attiva da circa due secoli ma fino ad allora praticamente impunita.
Ciò che rende assurdo e incredibile (o se si preferisce spiega fin troppo chiaramente) il fatto che Falcone sia poi stato “fermato” con calunnie e delegittimazioni d’ogni sorta: azzerando il pool e il suo metodo di lavoro vincente, umiliando Falcone fino a costringerlo ad emigrare da Palermo (ormai tutte le porte gli venivano sbattute in faccia) a Roma; qui continuò a impegnarsi da par suo applicando su scala nazionale il metodo “palermitano” basato su centralizzazione e specializzazione, creando la Procura nazionale, le Procure distrettuali antimafia e la DIA con relative banche dati. Un’ottima organizzazione che funziona ancora oggi, predisposta mentre la Cassazione (il 30 gennaio del 1992, ndr) confermava in via definitiva le condanne del maxi, rifilando ai boss ( che avevano fatto di tutto per impedirlo) una “tagliata di faccia” intollerabile. Un esiziale “uno-due”, cui Cosa nostra reagì con protervia bestiale: le stragi.
Oggi, ai tempi del coronavirus, il metodo Falcone fa ancora scuola. La pandemia sta causando – oltre a danni devastanti alle persone – uno choc economico-finanziario gigantesco. Molte attività rischiano di chiudere o faranno una gran fatica a riprendere. Si aprono così nuove opportunità ai mafiosi, che hanno nel loro dna di sciacalli la specialità di “ingrassare” speculando sulle sofferenze e disgrazie altrui. Uno scenario già di per sé cupo potrebbe tracimare in catastrofe.
E’ necessario giocare d’anticipo organizzandosi al meglio: sia traducendo in cifra operativa i cosiddetti bazooka economici, cioè gli aiuti massicci previsti sul piano nazionale ed europeo; sia pianificando per tempo forme efficaci di contenimento che incidano sul primo manifestarsi degli appetiti mafiosi. Una strada intrapresa dal capo della Polizia, Franco Gabrielli, costituendo – fin dall’inizio di aprile – un “Organismo permanente di monitoraggio presso la Direzione centrale della Polizia Criminale” (in collegamento con ogni altra Autorità interessata e con gemmazioni in tutte le Prefetture del Paese) per procedere ad un’accurata e preventiva ricognizione a tutto campo dell’infiltrazione dell’economia mafiosa italiana ed europea, con attenzione anche ai “tentativi di condizionamento dell’attività deliberativa relativa agli appalti pubblici”.
Un’iniziativa di pianificazione che richiama – appunto – gli insegnamenti di Falcone: organizzarsi in base alla raccolta dati e al loro studio, senza lasciare nulla all’improvvisazione.
Il 9 maggio l’Osservatorio ha elaborato un primo “report” di 75 pagine che individua i settori di maggior interesse per le cosche, ne analizza le strategie, elenca le precauzioni da adottare, tratteggia anche il “welfare mafioso” con cui si supportano le famiglie in crisi e si aumenta il consenso.
Un clamoroso riscontro di queste preoccupazioni si è avuto il 12 maggio: un’inchiesta Palermo-Milano ha portato all’arresto di 91 persone, mafiosi e complici, accusate di voler mettere le “Mani in pasta” (questa la denominazione dell’operazione) puntando ad attività economiche in crisi, in particolare al quadrilatero milanese della moda, a discoteche, negozi e centri scommesse.