L'INTERVISTA - La sorella del giudice: "Il termine antimafia è stato usato spesso da soggetti che non hanno fatto per nulla la lotta alla mafia. Mascherandosi dietro l'antimafia hanno fatto solo i loro interessi. L'allerta sulle mafie pronte ad approfittare dell'epidemia? Mio fratello diceva che l'attività economica delle mafie è un grosso indebolimento per le capacità dell'intero Paese. Il consenso sociale ai clan? E' facile per i boss trovare consenso in chi non sa e non ha. La lotta alla mafia, oltre che un discorso economico, è soprattutto una battaglia di cultura. Le inchieste sulle nomine in magistratura? Mi limito a ripetere che i nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi colleghi"
Come sta oggi l’antimafia? Come sta procedendo oggi la lotta a Cosa nostra, la ‘ndrangheta e la camorra? “Dipende”, risponde Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso nella strage di Capaci. In che senso dipende? “La lotta alla mafia e l’antimafia sono ormai, purtroppo, due concetti diversi. E questo ci addolora molto”, spiega la professoressa palermitana, che con la Fondazione Falcone tiene vivo ogni anno il ricordo del fratello. Ventotto anni dopo l’Attentatuni, l’Italia si ritrova a ricordare Falcone con una serie di iniziative telematiche. Il lockdown e il distanziamento sociale dovuti all’epidemia di coronavirus hanno cancellato per la prima volta l’ormai storica manifestazione all’aula bunker di Palermo, l’astronave verde simbolo del Maxiprocesso, il capolavoro professionale del giudice siciliano. Sospeso anche quel rito laico di resistenza civile rappresentato dal corteo all’albero Falcone di via Notarbartolo, sotto casa del magistrato che i vicini avrebbero voluto lontano. Il motivo? Le auto di scorta facevano chiasso e in caso di attentato non volevano ritrovarsi “coinvolti senza ragione”. Quasi trent’anni dopo tante, tantissime cose sono cambiate: a cominciare dalla stessa Cosa nostra e dall’Antimafia, fenomeni che sono addirittura arrivati a confondersi e compenetrarsi. Un gioco di specchi che ha giovato soprattutto alle intelligenze criminali. Oggi la crisi economica scatenata dal coronavirus è tutta un’allerta sulla criminalità organizzata che è pronta a infettare l’economia legale. Come un virus le mafie si sono evolute, sono mutate, per attaccare meglio il tessuto sano della nazione, sfruttando il momento di debolezza del Covid-19. E allora, in attesa del vaccino, è il caso di capire in che condizioni siano oggi gli anticorpi del Paese.
Professoressa Falcone, come sta oggi l’antimafia?
Lei vuole sapere come sta la lotta alla mafia o come sta l’antimafia?
Immagino siano ormai concetti diversi: corretto?
Purtroppo sì, sono ormai concetti diversi. Per questo io farei una distinzione. Il termine antimafia è stato usato spesso da soggetti che non hanno fatto per nulla la lotta alla mafia. Mascherandosi dietro l’antimafia hanno fatto solo i loro interessi. Per questo dobbiamo puntualizzare: non si può parlare di antimafia in generale, individuando tutti quelli che a parole – e a volte nemmeno a parole – si sono opposti a Cosa nostra. Dentro quel termine ci sono soggetti che hanno fatto il loro dovere, che era quello di portare avanti le idee di chi è morto. E ci sono altri che hanno fatto solo il loro interessi. E questo ci addolora.
Ventotto anni fa avrebbe mai detto che l’antimafia sarebbe diventata un’etichetta da usare come scudo, un paravento per fare affari e carriera?
No, non l’avrei mai detto, pensato e neanche immaginato. All’epoca l’antimafia erano soprattutto i magistrati, gli investigatori, che avevano cominciato finalmente dopo un secolo a fare la guerra alla mafia. Forse per questo motivo il 23 maggio rappresenta uno spartiacque.
In che senso?
C’è un prima e un dopo. E il dopo purtroppo non è sempre stato un periodo limpido. C’è chi ha messo al centro l’interesse collettivo, facendo antimafia come servizio alla collettività. E poi c’è stato chi ha sfruttato il brand, chi si è travestito da antimafioso, mentre era ben altro.
Questa è l’antimafia. E invece come va la lotta alla mafia? Avrà letto le molteplici allerte di magistrati e investigatori sui clan pronti a sfruttare la crisi economica provocata dal coronavirus.
Sì, ho sentito. E ho pensato a un concetto espresso da mio fratello Giovanni. Era una sua analisi sul fenomento mafioso. Sappiamo tutti che l’interesse principale della mafia è quello di fare soldi. Tutte le associazioni criminali mettono al primo posto il guadagno. Ma mio fratello faceva notare come la mafia, per far soldi, riesce a infiltrarsi nel tessuto sano della società. Corrompe magistrati, uomini delle forze dell’ordine, i politici, i medici. In questo modo contagia il tessuto sano. Oggi diremmo che lo infetta.
A un certo punto Falcone disse: la mafia si è quotata in borsa.
Quella è una frase emblematica. È un’altra cosa fondamentale che aveva notato Giovanni, e alla quale molti non hanno posto attenzione: l’attività economica delle mafie è un grosso indebolimento per le capacità economiche dell’intero Paese. Perché chiaramente sottrae una parte del capitale che è linfa vitale per la vita del Paese. La mafia approfitta di tutte le situazioni di crisi economica per sfruttarle a proprio vantaggio. Per questo motivo in questa situazione le mafie festeggiano: l’industria indebolita dal lungo lockdown sarà in difficoltà e andrà a caccia di investimenti. Non trovandoli nei canali legali, si rivolgerà a quelli illegali. Trasformando le imprese legali in imprese illegali: il vecchio commerciante pulito diventerà la testa di legno dei clan. Lo abbiamo letto un po’ ovunque in questi giorni, ma è un fenomeno che mio fratello Giovanni aveva ben chiaro già trent’anni fa.
In queste settimane si è parlato anche delle mafie che sfruttano la crisi per tornare a coltivare consenso sociale. Le chiedo: ma come fa ancora oggi la mafia ad attirare consenso sociale?
Perché continua a trovare terreno fertile là dove c’è una situazione economicamente problematica. Ma anche culturalmente debole.
Le faccio questa domanda pensando al caso di Fabrizio Miccoli, calciatore ricco e famoso, intercettato mentre con il figlio di un boss offende proprio la figura di suo fratello.
È facile trovare consenso in gente che non ha. Ma anche in chi non sa. La questione culturale è fondamentale: la lotta alla mafia è soprattutto una battaglia di cultura. Una volta parlando in una scuola chiesi a un ragazzo: chi è per te un boss? Mi rispose: è quello che guadagna e fa guadagnare.
A proposito delle scarcerazioni dei boss mafiosi lei ha detto: temo che a rendersi complici dei criminali siano le inefficienze burocratiche. Ma non è che c’è un abbassamento di tensione nella lotta alla mafia?
No, non credo che questo sia possibile. Il livello dell’allerta nella società è alto. Certo è anche vero che la società è fatta da tanti soggetti. Quindi può esserci qualche burocrate che non è preparato, che non conosce il fenomeno, e che quindi con la sua attività diventa inefficiente, involontariamente complice. Ma i giornali non hanno fatto finta di niente: hanno scritto immediatamente di quelle scarcerazioni, sottolineandone la gravità. Quindi vuol dire che l’allerta nella società è sempre alta. E in questo il ruolo dell’informazione è fondamentale.
La magistratura sta attraversando un periodo complesso. Che effetto le fa leggere di questi giudici che contrattano nomine come fossero al mercato?
Non mi parli di questi magistrati.
Perché?
Perché purtroppo io ho una memoria e ricordo la magistratura ai tempi di mio fratello. Ricordo come si comportò con lui.
Qualche tempo fa lei disse: i nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi colleghi magistrati.
E lo continuo a pensare e a dire. Putroppo la magistratura è diventata negli anni una categoria in cui la cosa più importante è primeggiare. Dove ogni promozione è decisa dall’alto. E quindi porta i magistrati – non tutti, ma una buona parte – a farsi una guerra senza esclusione di colpi.
Le manovre sulle nomine di questi mesi le hanno ricordato quelle di trent’anni fa? Quelle scattate per sbarrare la strada a suo fratello nella corsa a capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo?
All’epoca non volevano solo colpire la carriera di Giovanni. Volevano soprattutto indebolire la lotta alla mafia. E quindi bisognava creare danno a Falcone. Dietro quella votazione del Consiglio superiore della magistratura c’era una manovra diretta soprattutto a smantellare un certo metodo di lotta alla mafia.
Di suo fratello è stato fatto un santino, un sorta di superman senza macchia e senza paura. Eppure era un uomo. Ecco: che uomo era suo fratello Giovanni Falcone?
Un uomo che ha provato anche tanto dolore.
A quale fatto specifico pensa? A me viene in mente la famosa storia della vicina di casa che scrisse al giornale per chiedere di trasferire tutti i magistrati fuori città perché le auto di scorta facevano troppo rumore.
Quel caso lo addolorò tantissimo, perché vide che la società non capiva o rifiutava di capire il suo lavoro. Ma il momento più tremendo fu un altro.
Quale?
Le lettere del Corvo. Per lui fu un periodo dolorosissimo, perché intuì l’esistenza di una macchinazione creata da quelle menti raffenatissime di cui parla dopo l’attentato all’Addaura. In pochissimi colsero i veri riferimenti fatti da Giovanni. Per lui la lettera del Corvo lo colpiva in quella che definiva la sua sola ricchezza, cioè la ricchezza del suo onore.
In quella lettera si diceva praticamente che il pentito Contorno era diventato un killer di Stato, un vendicatore creato dallo stesso Falcone.
Quella fu una cosa che lo straziò. D’altronde ci rendiamo conto che quella lettera era una manovra per delegittimarlo e quindi creare meno clamore quando sarebbe morto nell’attentato dell’Addaura. C’era chi aveva cominciato a dirlo già prima: questo Falcone non era poi quel personaggio così puro di cui si parlava.
Le dà fastidio quando la politica usa il nome di Falcone, parla di “metodo Falcone”, per attaccare i magistrati che oggi sono in prima linea?
Il metodo Falcone è un sistema creato sul campo da Giovanni. Non è una frase: è un metodo d’indagine. Quindi sì, se viene strumentalizzato mi dà fastidio. Ma tra le varie strumentalizzazioni subite da mio fratello non è quella che mi ha dato più fastidio.
E quale è quella che le ha dato più fastidio?
Non mi faccia parlare, non voglio entrare in polemica con nessuno. Soprattutto oggi.
Mi faccia un esempio.
Mi ha molto infastidito quando qualcuno, ed è stato più di qualcuno, ha usato il nome di Giovanni per qualificare la propria attività, la propria carriera. Quando dicono che Giovanni avrebbe apprezzato il loro lavoro, perché era un loro amico. Non mi faccia dire altro.
Fuori dalle citazioni e dalle commemorazioni se ne parla sempre troppo poco. Chi era Francesca Morvillo?
Era una creatura dolcissima, una persona che sapeva dire sempre la parola giusta. Una donna che è riuscita a entrare nella vita e nel cuore di Giovanni, e non era facile. Quando mio fratello iniziò a frequentarla era come se avesse trovato la tranquillità, la stabilità. Io ho versato le stesse lacrime per Giovanni e per lei: è come se fosse morta mia sorella.
La mafia è un fatto umano che ha un inizio e una fine è un’altra delle notissime frasi di Giovanni Falcone. Ventotto anni dopo quanto è lontana la fine?
Dipende. Resta lontana fino a quando la società e la politica non si renderanno conto che la lotta alla mafia è una necessità primaria di questo Paese. Ripeto: primaria. La lotta alla mafia deve continuare a essere fatta in maniera intensa. Solo così un giorno, forse, ce la faremo.