Calcio

Ottavio Bianchi, non chiamatelo sergente di ferro: “Non mi piace”. Dallo scudetto col Napoli all’incubo Covid, storia di un antidivo

“Sopra il vulcano” (con prefazione di Gianni Mura), edito da Baldini+Castoldi, è il titolo dell'autobiografia dell'ex allenatore campione d'Italia con la squadra partenopea. Il tecnico bergamasco in un colloquio con ilfattoquotidiano.it ha raccontato alcuni aneddoti di quella impresa e cosa non funzionò nella stagione successiva, quella dell'ammutinamento dei calciatori. "Le cose belle spesso le dai per scontate… come nello sport ti restano dentro soprattutto le sconfitte, che rimangono come cicatrici anche successivamente"

Ha marcato Pelé e allenato Maradona. Nonostante una carriera invidiabile, Ottavio Bianchi ci ha messo anni per convincersi a scrivere la sua autobiografia. E se non ci fosse stato di mezzo la figlia Camilla, giornalista, probabilmente nulla sarebbe stato realizzato. Il mister non è uno che si sia mai concesso tanto alla stampa. Il giorno del primo scudetto a Napoli, il San Paolo è in festa e lui si limita a dire al microfono: “Abbiamo fatto un ottimo lavoro, sono soddisfatto”. Un sergente di ferro. È anche il titolo di uno dei capitoli del libro “Sopra il vulcano” (con prefazione di Gianni Mura), edito da Baldini+Castoldi.

“Ma se c’è un’etichetta che non mi piace è proprio questa”, dice Bianchi a ilfattoquotidiano.it. Eppure è uno tosto davvero, Ottavio. Quando arriva a Napoli, voluto da Italo Allodi, mette subito in chiaro che farà a modo suo. Qui è già stato da calciatore, in squadra con Sivori e Altafini, e conosce bene un ambiente che si lascia troppo trascinare nei due diversi sensi di marcia quando le cose vanno bene o quando le cose vanno male. Al San Paolo serve una diversa cultura del lavoro e del sacrificio. “Napoli prima di me aveva grandi giocatori, Diego era già in squadra, ma per tre quarti di campionato aveva giocato per non retrocedere ”. Alla seconda stagione sulla panchina arriva lo scudetto, il primo della storia azzurra, e la Coppa Italia. L’anno successivo c’è l’occasione per bissare il successo in campionato. Eppure in testa alla classifica, qualcosa si rompe.

Una stagione difficile da decifrare anche oggi. È l’anno dell’ammutinamento di alcuni calciatori. È il 1988, mese di maggio. Il portiere Garella legge un comunicato ai giornalisti chiaramente contro il mister. Che si prende la rivincita la domenica successiva, quando tutto lo stadio lo acclama. Lo scudetto ormai è perduto, lo vincerà il Milan di Sacchi ma la storia di Bianchi al Napoli non è conclusa. La società preferisce rivoluzionare la rosa, vendendo quattro titolari come Garella, Bagni, Giordano e Ferrario. Il Napoli arriverà ancora secondo in campionato, in finale di Coppa Italia ma soprattutto vincerà una splendida Coppa Uefa. “Non penso mai a quello che è successo – dice al telefono. Certo non è stata una cosa piacevole, ma l’abbiamo superata facendo successivamente una grande stagione. Vuol dire che c’era qualcosa che non andava”. Nei giocatori? “Appunto”.

A Napoli rimane fino al 1989, poi Roma, ancora Napoli e Inter. Si ferma e ha solo 51 anni. Un’ultima esperienza a Firenze a inizio millennio e poi smetterà definitivamente. Nella biografia racconta tutta la sua carriera, compresa quella di ottimo calciatore che ha giocato anche con il Milan. “Venivo dal secondo infortunio al ginocchio e a New York giocammo contro il Santos. Pelé aveva uno scatto bruciante con la palla al piede: velocità e arresto immediato per poi ripartire. Era completo, il colpo di testa, dribbling, destro e sinistro. In campo mi sembrava un felino. Ogni generazione è rappresentata da un fuoriclasse. Poi è arrivato Diego, adesso c’è Messi”.

Nato a Brescia nel 1943, Bianchi abita a Bergamo, città devastata dal coronavirus. “Sono ancora preoccupato, non mi sarei aspettato alla mia età di vivere una tragedia epocale come questa. Io non potrò mai più vedere la vita di prima. Fino a qualche settimana fa, ogni giorno squillava il telefono ed era morto un amico o un conoscente. Sono stato chiuso in casa per più di due mesi, da solo. Sentivo le sirene delle autoambulanze di continuo. Sono cose che ti lasciano il segno. Nell’aria si respira ancora molta incertezza, non si vede per il momento la luce in fondo al tunnel”. Il libro era già stato scritto, nemmeno pensare al pallone serviva in quei momenti duri. “Facevo fatica anche a leggere. Guardavo la tv e vedevo la tragedia. Non potevo stare vicino ai miei figli. Il passato? Le cose belle spesso le dai per scontate… come nello sport ti restano dentro soprattutto le sconfitte, che rimangono come cicatrici anche successivamente. Non riuscivo a pensare cose belle, nonostante nella mia vita e nella mia carriera ce ne siano state molte”.