Al trasporto dei vivi e dei morti e alle operazioni di sepoltura degli uccisi parteciparono altre centinaia di soldati e civili. Se presumiamo che solo una parte di queste persone si sia confidata con almeno un’altra persona, parlando di ciò che stava succedendo o abbia detto ciò che aveva visto, sentito o compiuto essa stessa, possiamo arrivare a un numero di almeno mille persone che parteciparono o sapevano del massacro di massa durato quattro giorni sul territorio di Bratunac e Zvornik, su un’area di circa tremila chilometri quadrati abitata in quei giorni da circa centomila persone.
Metodo Srebrenica, di Ivica Đikić (traduzione di Silvio Ferrari; Bottega Errante Edizioni) è uno straordinario, originale docu-romanzo (anche se non so se possa considerarsi il termine più corretto per definire quest’opera) che non spiega il perché ottomila musulmani bosniaci, perlopiù uomini e ragazzi, vennero ammazzati da unità dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina e da gruppi paramilitari, ma il come sia successo.
Con una prosa ridondante, l’utilizzo rafforzativo di ripetizioni e concetti basilari che girano in cerchio, ossessivamente, Đikić segue soprattutto il colonnello Ljubiša Beara durante quei tre giorni e tre notti del luglio 1995, narra la sua vita prima e durante la guerra, ci mostra un eroe dell’orrore, un protagonista che passa da un mondo ordinario a un mostruoso universo straordinario, razionalizzando, pianificando e coordinando l’operazione di sterminio.
Ora che tutto era finito, Beara avrebbe di gran lunga preferito che del suo ruolo nella vicenda non ne sapesse nessuno e, potendolo, avrebbe voluto celare il suo capolavoro al cospetto di tutti, tranne che davanti a Ratko Mladić e forse anche davanti a qualche altra persona della cui opinione nei suoi confronti, per motivi privati o di carriera, gli importava abbastanza.
Narra gli anni dell’infanzia e della giovinezza in una Belgrado povera ma vitale, gli anni del lavoro e della militanza in Italia, degli incontri con i personaggi di una Sinistra che avanzava e dell’attività di traduttrice e interprete delle massime cariche di entrambi i Paesi. Fino ad arrivare ai racconti, a distanza, di una Belgrado ancora bombardata, città vittima di una follia globale.
La mia città di nuovo bombardata, i miei amici, mia madre, la famiglia di mio fratello! Le strade e le piazze dove sono cresciuta, dove ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza! La televisione parlava di “bombardamenti umanitari”. E anche “intelligenti”. Intanto ogni giorno qualcuno moriva e poco importava se moriva per una bomba intelligente o stupida. Per riuscire a sopportare quella folle rappresentazione quotidiana cominciai a fare ricorso agli psicofarmaci.