Durante la quarantena, il Telefono Rosa ha registrato +24% di chiamate. Dati che secondo l'esecutivo denigrano “l’istituto della famiglia e del matrimonio”. A favorire i soprusi, spiega l’attivista Alena Popova, è la legge del 2017 che ha trasformato le percosse in famiglia in un semplice illecito amministrativo
La quarantena da coronavirus ha aggravato il problema della violenza domestica in tutto il mondo, ma in Russia, dove le botte in famiglia sono state decriminalizzate nel 2017 e dove manca una legge in materia, lo Stato rimane inerte, mentre gli ultraconservatori portano avanti la loro agenda. Secondo una lettera al procuratore generale inviata la settimana scorsa da alcuni deputati del partito di Putin Russia Unita – tra cui Vitalij Milonov, noto per aver promosso nel 2012 la legge anti-gay – i dati che testimoniano la crescita della violenza domestica in Russia durante la quarantena – +24% di chiamate al Telefono Rosa già a marzo – denigrano “l’istituto della famiglia e del matrimonio”. I deputati chiedono di verificarli, citando invece le statistiche del ministero degli Interni che danno i reati in famiglia in calo del 13% nei primi quattro mesi del 2020.
Ai primi d’aprile, ancor prima dell’allarme del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, sull’aumento delle violenze contro le donne durante la pandemia, le Onlus di categoria hanno chiesto al governo russo misure urgenti per proteggere le vittime. È passato più di un mese, ma nonostante i dati delle associazioni confermino la crescita dei casi di violenza in famiglia nell’ultimo periodo, niente è stato fatto per proteggere le vittime, che addirittura vengono sanzionate per violazione della quarantena quando si presentano in questura per sporgere denuncia, ha raccontato a Ilfattoquotidiano.it l’attivista Alena Popova, fondatrice della rete di aiuto reciproco tra le donne “Ti ne odna” (“Non sei da sola”).
Le violenze non sono solo aumentate (triplicate secondo i dati di “Ti ne odna”), ma sono diventate più efferate, racconta Popova, e le vittime devono usare messaggi in codice per chiedere aiuto, perché l’aggressore è con loro 24 ore su 24. Secondo gli esperti, la depenalizzazione delle violenze domestiche ha diffuso il senso dell’impunità, a maggior ragione perché il più delle volte, come spiega la fondatrice di “Ti ne odna”, il marito che picchia la moglie per la prima volta non viene sottoposto all’arresto amministrativo, ma ad una multa come quella per divieto di sosta. Il provvedimento del 2017, noto come “la legge sulle sculacciate”, ha trasformato le percosse in famiglia in un semplice illecito amministrativo, mentre prima erano un reato penale.
Sempre a causa della campagna degli ultra-fondamentalisti, con a capo il sito ultra-conservatore spagnolo CitizenGo, che nella sua versione russa è finanziato dall’oligarca ortodosso Konstanin Malofeev, secondo quanto sostiene Alena Popova, il progetto di legge sulla prevenzione della violenza in famiglia che era all’esame del Senato nel 2019 ha subito modifiche tali da svuotarlo di ogni senso. Popova è la co-autrice della versione del progetto che lei chiama “ideale”, mentre quella che ha pubblicato la Camera alta nel novembre dell’anno scorso è, secondo l’attivista, “una versione mutilata”: in questo testo, la stessa definizione di violenza in famiglia parla di un atto che non contiene la fattispecie di illecito amministrativo o di reato, mentre l’obiettivo della legge diventa “la preservazione della famiglia”. La discussione del progetto di legge riprenderà dopo la fine della pandemia, ha annunciato di recente la presidente del Senato Valentina Matvienko.
Potrebbe arrivare prima il verdetto della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), dove ora è al vaglio un “caso pilota” che unisce i ricorsi contro la Federazione russa di quattro vittime della violenza domestica. Come ha spiegato al giornale Kommersant l’avvocato Mari Davtjan, che difende le vittime della violenza in famiglia, la Corte di Strasburgo dovrebbe non solo deliberare sui risarcimenti alle vittime, ma anche imporre alla Russia di adottare una legge sulla violenza domestica.
Una delle vittime del “caso pilota” è Margarita Gracheva, la ragazza il cui caso ha avuto in Russia un forte eco mediatico e ha portato il problema della violenza domestica alla ribalta. Margarita vive con un braccio bionico perché nel 2017 suo marito, da cui voleva divorziare, l’ha portata in un bosco e le ha mozzato le mani con l’ascia. È successo tre giorni dopo che la polizia aveva archiviato la denuncia della ragazza.
Un altro caso di violenza domestica ad aver scosso la società russa e scatenato una vasta campagna a difesa delle vittime è quello delle sorelle Khachaturjan, accaduto nella diaspora armena, nota per le sue usanze patriarcali. A luglio del 2018 Kristina, Angelina e Maria, che all’epoca dei fatti avevano 19, 18 e 17 anni, hanno accoltellato il padre dopo anni di schiavizzazione e violenze di ogni tipo, comprese quelle sessuali, come hanno confermato gli investigatori. Le sorelle sono state accusate di omicidio di gruppo premeditato. Ma in seguito il sostituto procuratore generale ha chiesto di modificare il capo d’imputazione in legittima difesa. Tuttavia il Comitato investigativo russo ha rigettato una settima fa questa istanza.
A dimostrare che la società russa sta rivedendo i vecchi preconcetti sulla violenza contro le donne è stato il recente scandalo intorno alle frasi della conduttrice Tv, blogger e cantante Regina Todorenko. Ha affermato in un’intervista su YouTube che ad essere colpevoli della violenza domestica potrebbero essere le vittime stesse. In seguito a una raffica di critiche, l’edizione russa della rivista Glamour le ha tolto la nomina di “Donna dell’anno“. Dopo aver capito l’errore, la conduttrice ha girato un film sulla violenza contro le donne dal titolo E cosa ho fatto io per aiutare?, visto ad oggi da più di 4 milioni di persone.
“Ancora otto-nove anni fa prendevamo parte ai vari dibattiti sulla violenza contro le donne e sentivamo spesso frasi come quella che ha usato Regina”, dice Alena Popova. “Quello che le è successo dimostra com’è cambiata la situazione”, prosegue. “La società è avanti rispetto allo Stato, è più umana e non accetta nessun tipo di violenza”.
La Russia, insieme all’Azerbaijan, rimane l’unico Paese membro del Consiglio d’Europa a non aver non solo ratificato, ma neanche firmato la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica.