Lo chiamano “Screen New Deal” e annuncia, tra mille altre cose, anche la trasformazione epocale del sistema di istruzione a livello globale. Le lezioni nelle scuole e università, così come le conoscevamo prima dell’emergenza Covid-19, saranno presto un ricordo romantico, almeno così ci dicono da più parti. Eric Schmidt, Ceo di Google, ha spiegato che le priorità della sua azienda per il prossimo futuro sono “telehealth, remote learning and broadband” (telemedicina, apprendimento a distanza e banda larga). La Fondazione di Bill e Melinda Gates punta a sviluppare in modo permanente un “smarter education system” (sistema di istruzione più smart). Il governatore di New York, Andrew Cuomo, ha di recente chiesto pubblicamente a docenti e studenti: “[…] tutti questi edifici, tutte queste aule fisiche – perché, con tutta la tecnologia che avete?”.
Fatte le dovute differenze, non cambia la situazione spostandosi in altri paesi o continenti. Ovunque avanza con ritmo serrato quella che Naomi Klein ha definito “pandemic shock doctrine” (dottrina dello shock pandemico). Il sistema dell’istruzione è chiaramente nel mirino di tale dottrina. L’impatto sociale si prefigura enorme, devastante, molecolare. L’istruzione interamente mediata e governata dagli schermi promette una rivoluzione epocale, con effetti immediati e duraturi (di tipo educativo, antropologico, sociale, economico e politico) su studenti, docenti e molti lavoratori (amministrativi e non). Alcuni di questi effetti sono già visibili nel sistema accademico degli Stati Uniti, paese in cui l’insegnamento a distanza era già diventato uno scenario diffuso subito dopo la crisi economico-finanziaria del 2008.
I corsi online hanno reso più facile l’aumento della “produttività” nelle università, abbattendo radicalmente i costi, salari dei docenti compresi. Come afferma uno studio recente, la preparazione dei corsi online ha rappresentato una soluzione utile per i manager delle università, perché le spese da sostenere per aggiungere in ambienti online nuovi studenti sono del tutto trascurabili: non si devono considerare gli spazi nelle aule e nelle biblioteche, negli uffici o nei campus. Le lezioni online aiutano anche a contenere le spese per i docenti: bastano pochi docenti per un grande numero di studenti. Nello studio sopramenzionato si sottolinea, infatti, che “un aumento del 10% degli studenti nelle classi si traduce in un risparmio di 10% in spese salariali”.
Nella crisi economica appena iniziata, che si profila ben più grave di quella del 2008, molte università statunitensi vogliono adottare una strategia più aggressiva rispetto al passato, soprattutto in considerazione delle già traballante situazione finanziaria di molte di loro. Già prima della pandemia, il 10% delle università statunitensi si trovava in una situazione di estrema crisi finanziaria, con un altro 30% in serie difficoltà finanziarie. La situazione è ora semplicemente catastrofica. Il Moody’s Investor Service ha recentemente declassato le prospettive dell’istruzione universitaria statunitense a “negative” (negativo). Le entrate nel settore saranno probabilmente tutte in caduta libera, sia in ambito privato che pubblico. Molti esperti affermano che i recenti provvedimenti economici approvati in Parlamento sono del tutto inadeguati per affrontare la grave situazione.
Accanto all’instabilità finanziaria delle università statunitensi, che si trascina da diversi anni, occorre sottolineare che il 70% del corpo docente è composto da docenti a contratto (adjunct professors), cioè lavoratori fortemente precari, i cui incarichi possono avere la durata di un anno o, addirittura, di un solo trimestre. Dalle statistiche emerge anche che il 25% dei docenti universitari vive in condizioni di povertà.
I salari, come già detto, si sono drasticamente ridotti negli ultimi 15-20 anni e lo spostamento online della docenza ha seriamente incrementato il tempo di lavoro. Come se non bastasse, molte università stanno ora licenziando i docenti precari.
Il caso più eclatante è quello del City University of New York (CUNY), che alcuni giorni fa ha pubblicato un piano di riduzione del budget di circa 10 miliardi di dollari. Gli “adjucts”, come era ampiamente prevedibile, si sono trovati nella lista nera dei licenziabili, ma non dormono sereni neanche gli “associates” o i “full professors”. Il sistema di insegnamento online, che estende la competizione a livello globale, lascerà in campo soltanto pochi professori “superstar”, eliminando tutti gli altri o degradandoli nel ruolo di semplici tutor.
A mancare quasi del tutto in questo grande processo di trasformazione in atto sono i sindacati. La loro risposta negli Stati Uniti, così come in molti altri paesi, è attualmente molto debole. Sindacati accademici come l’AFT (American Federation of Teachers) e l’AAUP (American Association of University Professors) hanno chiesto ai rettori e ai manager di imporre chiari protocolli di sicurezza sia per gli studenti che per i docenti/lavoratori, e sia l’AAUP che il NEA (National Education Association) hanno rilasciato dichiarazioni su alcuni pericoli dell’insegnamento online. Ma quasi nulla hanno detto sui licenziamenti, sull’aumento delle dimensioni delle classi, sul taglio del budget o dei salari, come diretta conseguenza della formazione online.