di Roberto Oliveri del Castillo *

I giorni che accompagnano il 23 maggio di ogni anno, dal 1993 in poi, sono giorni densi di tristezza. Dal 1993 in poi, perché quel giorno del 1992 c’era ben altro che la tristezza: lo sgomento, il vuoto e l’incredulità erano le sensazioni più vicine all’esprimere l’indicibile, l’irraccontabile. Quei giorni eravamo a Roma per le prove scritte del concorso in magistratura, in commissione c’era Francesca Morvillo, moglie di Giovanni Falcone. Ci apprestavamo a vivere un tranquillo week end a Roma dopo le prove, quando nel pomeriggio ci piomba addosso la notizia dell’attentato, e le nostre vite, i nostri pensieri, non sono stati mai più gli stessi.

Sono passati 28 anni da allora, trascorsi per lo più nelle aule di tribunale e negli uffici Gip di mezzo sud. 28 anni distribuiti tra Napoli, Palmi, Matera, Trani e Bari. E in questi 28 anni abbiamo imparato molto, da ogni realtà giudiziaria e sociale a cui mi sono avvicinato. Ebbene, abbiamo imparato che i territori non sono infestati solo da organizzazioni criminali che si occupano di rapine, estorsioni o traffici di droga, né solo da associazioni di tipo mafioso in senso classico, di quelle che fanno le cerimonie di affiliazione con i santini e i “battesimi”, di tante descrizioni in sentenze e letteratura. Ci sono territori dove le organizzazioni criminali sono occultate nelle pieghe degli uffici pubblici, e allignano all’ombra di pubblici poteri e pubbliche funzioni, e dove il potere conferito dallo Stato per la tutela della legalità viene sviato per ottenere vantaggi personali in termini di potere, prebende e vile denaro, in una logica parassitaria già emersa in passato. E quando i centri criminali coincidono con uffici pubblici destinati alla tutela della legalità, ecco che si realizza quello che la politologia (Schmitt, Agamben) chiama “Stato di eccezione”, e che non è categoria che riguarda solo la politica. Quando la sospensione del diritto avviene non per decisione politica ma per decisione giudiziaria, finalizzata a distorcere le funzioni pubbliche per fini personali, è questione che riguarda anche la giustizia, anzi quel territorio di confine che sta tra giustizia e politica, posto che alla fine è decisione politica mandare un determinato magistrato a dirigere un certo ufficio.

In questi giorni le cronache stanno evidenziando l’esistenza di reticoli di rapporti tra magistrati che rivestono funzioni apicali in ambito associativo e istituzionale, vertici di uffici, vertici dell’autogoverno, che fanno veramente pensare ad una rete clientelare strutturata per la costruzione di carriere in un sistema parallelo non basato su effettivi meriti ma su amicizie e conoscenze politico-associative. E queste cronache si intrecciano con altre cronache di vicende processuali e cautelari, che dimostrano come in questi anni ci siano stati territori dello Stato sottratti alla giurisdizione dello Stato, ma non perché lo Stato fosse incapace di contrastare il contropotere malavitoso, tanto radicato in alcune parti del nostro Paese, ma bensì perché lo Stato, o meglio chi lo rappresentava, “era” il contropotere malavitoso/massonico, con gli organi di polizia chiamati a partecipare, sia in modo colluso, sia inconsapevolmente, a questa gigantesca opera di sviamento di potere. E le collettività, interi circondari, erano ormai ostaggio nelle mani di un manipolo di funzionari infedeli, con e senza toga. Anche la terminologia utilizzata da questi funzionari ricalca schemi malavitosi, rivelando nell’intimità di conversazioni ritenute al riparo da orecchie indiscrete, tutta l’essenza del potere che scaturisce da funzioni pubbliche deviate.

Basta pensare, per averne la riprova, alla frase “Qua comandiamo ancora noi”, apparsa su alcune cronache di questi giorni. Indubbiamente le indagini faranno il loro corso e gli esiti dovranno passare attraverso le garanzie di un giudizio. Tuttavia, una breve analisi della frase in se, può essere interessante, a prescindere da chi l’ha effettivamente pronunciata. Proviamo ad astrarla dal contesto, avrà sempre lo stesso senso. Se, ad esempio, la traduciamo in lingua napoletana (“cca’ cumannamm’ ancor’ nuje”), e le diamo un po’ di enfasi, sembra una frase uscita dalla fiction “Gomorra”. Oppure, al naturale, può inserirsi in un più verosimile contesto politico-amministrativo, tipo “Le mani sulla città” di Francesco Rosi. In ogni caso, è frase che esprime un contesto malavitoso, con o senza colletto bianco. Invece no. Pare, dalle cronache, che sia una frase detta da un innocuo pensionato ex funzionario di Procura. In questo caso forma e sostanza della frase coincidono in un eloquente concetto non proprio lecito, aggravato dall’origine funzionale e dal riferimento giudiziario nel quale si pone.

A ben vedere, in questa frase c’è tutto. In primo luogo, abbiamo una chiara indicazione spaziale. “Qua” è il radicamento nel luogo, dovuto ad una pluriennale presenza in una determinata posizione di potere ed una prolungata attività. Lecita? Illecita? Tutt’e due? Chissà. Come in tutte le attività umane in forma più o meno organizzata, la prima definizione è il recinto operativo, l’al di qua e l’al di là, il confine entro il quale vale il potere che si dispiega. In secondo luogo l’uso del plurale esprime un doppio concetto, ovvero l’esistenza e l’appartenenza, di chi parla, ad un gruppo organizzato, con tutto il suo potenziale operativo nel campo formale della legalità, ma se necessario utilizzabile per altri scopi, la significanza dell’apporto di ciascuno, e non ultimo anche l’eventuale senso intimidatorio di un “Noi” così strutturato. In terzo luogo, l’uso del verbo “comandare”, verbo poco consono ad un ufficio giudiziario, che esprime con forza “militare” il disprezzo per le regole, perché sottintende una capacità di imporre il proprio volere, proprio di un sistema malavitoso e paramilitare organizzato gerarchicamente dove il vertice impone il suo volere, dove il “comandare” è gergo che non si raccorda con un sistema di regole, ma tende a saltarle per puro potere di poterlo fare, in raccordo con il concetto schmittiano di “decisione sovrana”.

In quarto luogo, attraverso l’avverbio “ancora”, si introduce una connotazione temporale, una dimensione di ultrattività temporale, che salta anche le basilari regole formali del tempo corrente. Vuol dire che formalmente costoro non potrebbero più comandare, ma in realtà lo possono ancora fare, e ciò per la presenza di “fedelissimi”, una rete di soggetti istituzionali e non su cui si può contare per “comandare”, e raggiungere gli obiettivi che il gruppo si pone. Ancora il ricorso a termini propri di un contesto malavitoso, ma certo non ad un ufficio giudiziario. Chi siano questi fedelissimi le cronache lo hanno in parte rivelato, in parte lo diranno in futuro. Si vedrà, alla fine, il quadro di insieme che uscirà, e, possiamo scommetterci, sarà devastante. Alla fine, probabilmente, sarà evidente che il reticolo di conoscenze paramassoniche di cui alle prime cronache è alla base del reticolo malavitoso emerso nelle seconde cronache, e che chi ha proceduto a determinate nomine di vertici di uffici travolti dagli scandali ne è il primo responsabile politico e morale. Ne risponderà mai qualcuno? Siamo scettici. Eppure la memoria di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli altri caduti nell’adempimento del dovere meriterebbe nella nostra categoria una maggiore pulizia morale e una minore vergogna. D’altra parte, secondo una frase attribuita a Giovanni Falcone su chi nominare a capo di una Procura, tra uno bravissimo, uno appoggiato dal governo e un cretino, quello che ha meno chances di farcela, è quello bravissimo.

*attualmente giudice della corte d’Appello di Bari, dal 2000 al 2013 a Trani prima come gup e poi come gip. Nel 2014 ha scritto Frammenti di storie semplici, romanzo che racconta gli intrallazzi e i giochi di potere di un piccolo ufficio giudiziario del Sud Italia. In molti l’hanno identificata con quella di Trani, circostanza che ha fatto diventare il libro un piccolo caso editoriale. Come persona informata sui fatti in procedimenti per incompatibilità ambientale relativi ad altri magistrati di Trani, Del Castillo è stato chiamato dal Csm a spiegare il contenuto e i riferimenti della sua opera. Nel 2016 – sempre come persona informata sui fatti – è stato ascoltato dai pm di Lecce che avevano scoperchiato il Sistema-Trani, indagine che ha portato all’arresto del pm Savasta e del gip Nardi (indagato l’altro magistrato Scimè) per fatti che a molto sono sembrati simili in tutto e per tutto a quelli raccontati da Oliveri del Castillo.

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