di Giulio Cupini

Il Coronavirus ha portato venti di cambiamento in ogni aspetto delle relazioni umane. Ci si è molto concentrati nelle ultime settimane, giustamente, nel valutarne gli effetti sulla vita sociale e lavorativa, tralasciando però a mio giudizio un aspetto importante, il cambiamento che sta coinvolgendo anche il settore della comunicazione.

Da sempre infatti la comunicazione è il termometro dei pensieri di un paese, la rappresentazione più sincera degli impulsi che muovono sia i mercati interni che esterni. In questo momento molte aziende e agenzie hanno iniziato a parlare di “new normal”, il rilancio strategico di asset per adattarsi a una normalità in cui la vera sfida è evitare di giocare al ribasso, strutturando dei piani che sostengano nuovi modi di fare business.

Il come farlo è oggetto di dibattito. Da una parte chi, come Stefania Longo, da 12 anni nel team comunicazione digitale di Sisal, ritiene che il digital divide sia il primo scoglio da superare nel sistema paese, perché “larghe fasce di popolazione non sono riuscite a seguire l’onda e il rischio del divario digitale è ancora più forte di prima.”

Dall’altra parte c’è chi invece, come Giulio Rubinelli, creative director di No Panic, ritiene che questa fase sia un’enorme opportunità per i brand, che li vede già nella posizione di poter “dialogare 1:1 con il loro pubblico, consolandolo, facendogli forza, dandogli coraggio, spiegandogli come comportarsi correttamente per non contrarre il virus, come mantenersi lucido durante l’isolamento, come intrattenersi”.

Questo approccio è chiaramente in corso, lo vediamo nelle pubblicità e nell’advertising: i brand hanno ottenuto un ruolo inedito, perché hanno capito che non governano più da soli la narrazione dei loro prodotti, hanno bisogno di coinvolgere il pubblico in una riflessione più ampia. Con una crisi di identificazione verso valori politici, nazionali, relazionali, familiari, i brand hanno l’opportunità di colmare quel vuoto. Con una crisi verticale già in corso, chi oggi saprà costruire una relazione realmente di fiducia con i propri consumatori sarà più rapido ad avvantaggiarsi nella ripresa.

Ovviamente il rischio in un momento di crisi, come sempre nelle rivoluzioni, è la tentazione di voler gettare tutto alle ortiche e ricostruire da zero ogni paradigma, con la concreta possibilità di ignorare quanto di buono si era già costruito.

Evitarlo è importante perché, come dice Longo, “è un tempo nuovo e diverso, ma ci entriamo con un bagaglio prezioso che non va disperso. Il digitale dovrebbe essere visto per quello che è: un formidabile abilitatore che può aiutarci ad attraversarlo, questo tempo, e viverlo creando anche qualcosa di nuovo. Penso alle opportunità che il lavoro a distanza, se gestito e regolamentato correttamente, offre a migliaia di lavoratori.”

Una delle iniziative più interessanti a questo proposito viene proprio da No Panic, che ha realizzato un corto intitolato The Long Way (con la voce di Axelina Gunnarsson, in collaborazione con Fez Film), in cui si affronta proprio il tema della ripartenza, con la sensibilità di chi vede nella costruzione del futuro una opportunità di integrazione più che di distruzione rispetto al passato.

Mi sembra infatti molto interessante il concetto di digitalizzazione emotiva, in cui, citando sempre Rubinelli, “è la capacità di empatia il prossimo grande sforzo che il digitale dovrà compiere; un processo dilagante – ad esempio sui temi legati alla sostenibilità – che stava attraversando tutto il mondo e che temporaneamente si è spostato online.”

Una ulteriore riflessione che ritengo rilevante è la possibilità oggi di offrire una visione diversa del proprio business. Le aziende dovranno capire che se le ultime statistiche parlano di un 70% degli italiani che ha paura di perdere il lavoro, la gestione di questa paura passa anche attraverso le loro politiche di comunicazione.

Non si può più pensare di ragionare come monadi, per quanto grandi; bisogna cominciare a pensare a ecosistemi aziendali che collaborino tra loro, anche tra concorrenti, introducendo in Italia “il concetto anglosassone del give back, restituire cioè alla collettività parte di ciò che si è ricevuto. E non solo in termini economici, ma di esperienza, professionalità, conoscenza”, spiega Longo.

In conclusione, la comunicazione oggi ha davanti a sé un ruolo sociale enorme, il rischio di renderlo evanescente affrontando questa fase solo con pubblicità di orgoglio epico fine a se stesso (“ce la faremo”) deve essere evitato con una dose di realtà e chiarezza che sarà determinante nel rilancio post-crisi.

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