L’Università di Cambridge sta pianificando di tenere le lezioni online per l’intero anno accademico 2020-2021 a causa del coronavirus. Un portavoce dell’ateneo ha dichiarato: “Dato che è probabile che il distanziamento sociale continuerà ad essere richiesto, l’università ha deciso che non ci saranno lezioni frontali durante il prossimo anno accademico”. Una notizia a prima vista scioccante che merita qualche riflessione, a partire dalla preoccupazione: sarà il coronavirus il killer dell’università così come la conosciamo da mille anni?
A Cambridge si prevede già che le iscrizioni diminuiranno, con una riduzione del numero di studenti stranieri, invertendo così la tendenza degli ultimi anni di aumento continuo di iscritti in tutte le università del Regno Unito, specialmente quelli provenienti dalla Cina. Ciò stabilmente crea per il sistema universitario britannico un flusso di entrate considerevole giacché gli studenti stranieri pagano tasse universitarie più elevate e queste entrate sono stimate in forte contrazione nel prossimo anno accademico.
Altre università private nel mondo sembrano seguire un approccio diametralmente opposto. Negli Usa, ad esempio, l’Università di Notre Dame in Indiana ha annunciato la scorsa settimana che accoglierà gli studenti nel campus già il 10 agosto prossimo, con due settimane di anticipo. Inoltre, l’università ha annullato la pausa autunnale e terminerà il primo semestre entro la Festa del Ringraziamento di fine novembre.
Per prepararsi in tempo, mettendo in atto ogni possibile misura di sicurezza individuale, l’università privata guidata da religiosi ha fin dall’inizio della pandemia mobilitato tutti gli specialisti dell’ateneo per mettere a punto un piano operativo adatto a raggiungere l’obiettivo di consentire il rientro di studenti e professori nel campus e del riavvio delle normali attività con modalità ordinarie, approntando tutte le necessarie misure di sicurezza anche pro futuro. Ad esempio prevede che il testing degli studenti sarà assai frequente, che gli addetti ai test alloggino protetti in un’area riservata e che i corsi siano offerte in presenza, con l’allestimento in parallelo della didattica a distanza per consentire a qualsiasi studente in isolamento o in quarantena di continuare a partecipare alle lezioni.
Appare evidente che l’Università di Cambridge, una delle più prestigiose al mondo – terza nello Shanghai ranking e settima nel QS university world global ranking – con i suoi 18.000 studenti di cui quasi 4.000 stranieri che provengono da 120 Paesi, può anche permettersi la flessione di un anno accademico, riducendo prestazioni e costi, in attesa della prevedibile ripresa nel 2022. Ma non per tutti valgono le stesse considerazioni e, dunque, una piccola università privata come Notre Dame che non gode di un enorme bacino internazionale, mette in atto tutte le misure possibili per tenersi stretti i propri allievi, aumentando il livello di servizio e la percezione di sicurezza nel proprio campus.
Discorso diverso per la ricerca universitaria: in un’indagine svolta informalmente a livello mondiale solo il 7,2% degli intervistati ha riferito che il loro laboratorio era aperto e funzionava normalmente. Laddove si interrompe il circuito virtuoso fra didattica universitaria e ricerca, quest’ultima ne trae detrimento certo e perciò, anche e principalmente in prospettiva, sarà difficile per i sistemi universitari meno strutturati rispondere alla sfida della ripresa economica globale, che richiederà di chiamare a raccolta intelligenza e cultura anche per rivedere i modelli di sviluppo che saranno toccati dall’esito della pandemia. E l’università, in certi Paesi, potrebbe non essere pronta all’appuntamento senza un’attenzione alle sue dinamiche di interazione fra ricercatori, studenti e Società civile che sono il vero motore dell’innovazione universitaria.
In Italia dove il servizio universitario pubblico è prevalente ci si poteva attendere una risposta di sistema che ad oggi sembra non esserci, con la giustificazione “di scuola” che ciascuna università opera in regime di autonomia. L’autonomia universitaria è da sempre la foglia di fico dietro cui nascondere ogni genere di disinteresse, al limite dell’abbandono, del sistema universitario italiano, salvo poi non valere più tutte le volte che conviene interferire con le scelte locali sgradite al Ministero (o che la classe politica percepisce non essere gradita all’opinione pubblica, opportunamente bombardata da disinformazione). Se, da un lato, nel Paese è già stato avviato un dibattito sulla Sanità, mettendo in dubbio che l’autonomia regionale debba sempre prevalere, nel caso dell’Università, come sempre, vige la regola del silenzio.
Con questo, sia ben inteso, non si intende qui sostenere che sia auspicabile il ritorno alla passata (per certi versi sciagurata) gestione centralista e paternalista, ma nel quadro attuale è difficile non vedere i rischi di un forte ridimensionamento del sistema universitario italiano, come risultato dell’indifferenza e dell’ignavia.
Un’indagine della Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI) di fine marzo scorso, quindi in piena pandemia, ha mostrato come l’88% del complesso delle attività didattiche delle università sia stato trasferito online e che più di metà degli atenei erogava già più del 96% dei corsi previsti con strumenti di teledidattica: una risposta, decisa e approntata localmente, indice di uno straordinario grado di efficienza organizzativa e di dedizione individuale di studenti e docenti. Risposta e risultati tanto più straordinari, specie se si considera lo scarso livello di digitalizzazione e di alfabetizzazione informatica che caratterizzano il Paese (ed in primis la sua pubblica amministrazione).
Ma, nonostante tutto, il Paese reagisce sempre con abnegazione e in modo efficiente e rapido alle emergenze: l’università, in silenzio, ne ha dato prova in questi mesi. È là dove pianificazione e organizzazione debbano emergere che sorgono desolanti difficoltà. Come ricorda la Cgil in un suo recente rapporto, “il ministro Manfredi e diversi DPCM hanno più volte ribadito come l’attività di ricerca prosegua normalmente”. Si tratta di una visione formale e burocratica del problema da parte delle autorità, per non parlare di pietosa bugia, in quanto in realtà le attività si sono quasi ovunque fortemente contratte (salvo che, per evidenti motivi, nelle facoltà di medicina specie se direttamente associate a policlinici universitari).
La scarsa attitudine del Paese all’uso degli strumenti digitali ha spinto finora a vedere queste tecnologie come utile mezzo per allontanare, o come si dice distanziare, le persone. Ma una Società che abbia finalmente ben compreso l’importanza sociale ed economica delle tecnologie digitali deve usarle per avvicinarle in massima sicurezza, come utile complemento per sviluppare socialità e interazioni culturali, strumenti che nell’università sono fondamentali e che non possono essere sacrificati e, con essi, il suo millenario modello di sviluppo.