Molto si è scritto e raccontato sul possibile nesso tra il Covid-19 e l’inquinamento: vi è stata una corsa alla pubblicazione, ma le evidenze fornite fin qui sembrano esili quando non inesistenti. Per comprenderlo è sufficiente confrontare gli eccessi di mortalità dei primi mesi dell’anno nelle diverse province di Lombardia e Veneto per comprendere come ben altri siano stati i fattori rilevanti. Province con livelli di inquinamento identici hanno eccessi che variano da 1 a 10 e viceversa altre zone con livelli di polveri sottili diversi fanno registrare un quadro sostanzialmente omogeneo.

Il Covid-19 presenta invece caratteristiche comuni con il problema dei cambiamenti climatici: sono fenomeni planetari che postulano risposte planetarie. Inoltre il virus ha generato fenomeni economici ed ambientali molto peculiari: il crollo contemporaneo sia delle emissioni, come non si è mai verificato dal secondo dopoguerra ad oggi (un calo del 5,5%, stimano gli scienziati del Global Carbon Project) rispetto al 2019, e dei prezzi delle energie fossili, scese intorno ai 30 dollari al barile di petrolio di riferimento.

Una ripresa “business as usual” può far perdere una occasione positiva di intervento globale, e trasformarla nel suo contrario: il basso prezzo dei fossili può espellere dal mercato molte fonti rinnovabili nonostante i grandi progressi fatti da queste (in particolare solare e vento) negli anni recenti, tanto da avvicinarsi molto per costi di produzione energetici, a quelli delle fonti fossili pre-Covid.

In perfetta coincidenza, aumenteranno drammaticamente in tutto il mondo i fabbisogni di risorse pubbliche. E si sente parlare da molte fonti autorevoli (Von Der Leyen in Europa, e la consulente del nostro primo ministro, prof. Mazzuccato, in Italia) di un “green new deal”. Ma il miglior “green new deal” può essere proprio un intervento che risponde anche al problema finanziario sovraccitato, invece che aggravarlo: una “Carbon Tax” più universale possibile.

Sarebbe innanzitutto socialmente accettabile come mai finora successo, perché, come si è detto, si aggiungerebbe a prezzi eccezionalmente bassi delle fonti fossili, quindi con effetti di shock per ora ridotti. I prezzi finali dell’energia sarebbero destinati ad aumentare lentamente con la ripresa della produzione mondiale. Un “double dividend” difficilmente ripetibile.

I valori annui in gioco per i ricavi sono stimati prudenzialmente dall’Economist (23 maggio 2020) nell’ordine dell’1% del Pil mondiale, cioè nell’ordine degli 800 miliardi di dollari all’anno (stime Banca Mondiale). E questo con un livello di tassazione molto modesto, di circa 20 dollari per tonnellata di CO2 emessa (nel 2019 siamo nell’ordine dei 400 milioni di tonnellate totali emesse).

Venti dollari, si badi, è un valore lontano da quello di 35 dollari proposto come efficiente dal celebre studio Imf “Getting the prices right” del 2016, e molto lontano dai 100 euro a tonnellata proposto come valore di riferimento dalla Commissione Europea.

Utile ricordare i motivi tecnici per i quali una tassazione delle emissioni di gas climalteranti (CO2 in primis) sarebbe un “first best” rispetto a standard, voucher (“permessi di inquinare”) e sussidi. Gli standard per definizione prescindono dai costi di abbattimento, che possono essere estremamente differenziati tra paesi, settori produttivi e singole imprese. E l’ottimo sociale (massimizzazione del surplus) si ottiene solo minimizzando la somma dei costi ambientali e di quelli di abbattimento.

Non dissimili i problemi dei voucher, che postulano mercati locali di questi assai difficili da gestire e di facile manipolazione politica da parte di interessi particolari. Ancora più ovvio il problema di agire mediante sussidi: con il pesante fabbisogno di risorse pubbliche che ci attende, aumentare la spesa per l’ambiente non sembra una strada percorribile, anche in quanto tendenzialmente non si creano ritorni finanziari rendendo più “verdi” le produzioni.

E questo approccio cosa comporterebbe per il settore dei trasporti? A scala mondiale, il suo peso relativo sulle emissioni climalteranti è in crescita, a causa di due fenomeni concomitanti: il rapido aumento della motorizzazione nei grandi paesi in via di sviluppo, e l’insufficiente tassazione dei carburanti sia negli stessi paesi che negli Stati Uniti (in alcuni paesi come Egitto e Venezuela i prodotti petroliferi sono addirittura sussidiati). Poi i combustibili fossili nel settore aereo e navale di fatto oggi non sono tassati, rallentando così, per mancanza di incentivi adeguati, il progresso tecnico verso motorizzazioni meno inquinanti.

L’Europa (e il Giappone) invece presentano uno scenario opposto: il loro peso nel totale delle emissioni inquinanti nei trasporti terrestri è già basso, grazie all’azione combinata di standard e fiscalità, ed è previsto declinare ulteriormente. Con l’avvento di una carbon tax emergerà da un lato l’elevato livello di “internalizzazione” già in atto per via fiscale, assai più elevata che in altri settori inquinanti (cfr. Oecd e il citato studio Imf), alcuni dei quali addirittura sussidiati, come l’agricoltura.

Ma anche una straordinaria occasione per accelerare lo sviluppo di mezzi di trasporto meno inquinanti, avendo come obiettivo primario le esportazioni in un mercato internazionale che genererà una domanda assai più elevata di tali mezzi, soprattutto ovviamente quelli in grado di essere interamente pagati dagli utenti, rispetto a quelli che necessitino di ulteriori risorse pubbliche.

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