Molti i cambiamenti in atto nel mondo, con le economie piagate dal Covid-19, mentre mancano cinque mesi alle elezioni presidenziali in America. Tengono banco gli scenari distopici. Sul fronte non medico ma militare, nessuno parla più di Siria, Iraq e nemmeno Libia, spira un’aria da anni Cinquanta ed è più un rischio il potenziale conflitto tra Stati Uniti, Cina e Russia.

La Casa Bianca, con l’abituale rozzume dell’attuale Commander in chief, ha sdoganato una policy di forza unilaterale nei confronti di nemici ed alleati, e un disprezzo con conseguente ritiro da tutto ciò che è (era) multilaterale, dal trattato sui missili nucleari, all’OMS, agli accordi sul clima.

Ma i pianificatori di guerre, gli esperti in “war games”, annidati nella falange dei neo-con, arroganti perché ossessionati dallo slogan “esportiamo democrazia e mercato”, stanno facendo filtrare il messaggio che gli Stati Uniti nel dopo-pandemia non sono impegnati dal fronte di Vladimir Putin e della Nato (chi ricorda la Crimea o l’Ucraina?) quanto piuttosto con le “operazioni di manipolazione psicologica e culturale”, contro Pechino.

Un report del Financial Times (titolo: US elite forces ill-equipped for cold war with China) ha descritto in dettaglio come i pezzi grossi del Pentagono stiano elaborando la nuova guerra fredda con la Cina.

Non sarà però la fantomatica Terza Guerra Mondiale agognata dai cospirazionisti da tinello. Il conflitto è di tipo nuovo, più che missili e droni killer le Operazioni Speciali Usa devono utilizzare l’intelligence per campagne di disinformazione. Come ai tempi del maccartismo, o durante la prima Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica, quando la Cia assoldava intellettuali per parlare male di Mosca. Stavolta il nemico comunista è la Cina, seconda potenza economica globale, con i suoi 1,4 miliardi di abitanti.

Anche in Italia abbiamo esempi di questa guerra culturale. Sui giornaloni di proprietà degli industriali ravviso una faziosità anti-cinese senza precedenti, con picchi di sottomissione politico-finanziaria al Dipartimento di Stato Usa che appaiono stupefacenti per l’assenza di mezze misure, anzi, sono cori e ole da curva sud, mentre dosi massicce di faziosità contro Xi Jinping si sprecano.

Esempio plateale, secondo me, è La Repubblica: Maurizio Molinari, direttore da 5 settimane, per quanto sia un giornalista di razza e competenza rare, ha impresso una svolta iper-conservatrice al quotidiano ex De Benedetti oggi nell’orbita della galassia Agnelli-Exor.

Molinari non perde occasione per attaccare ad alzo zero la Cina con articoli, commenti, video e reportage, sia sul fronte Covid-19 che sulla guerra commerciale ingaggiata dagli Usa. Donald Trump invece, non solo non viene mai criticato (e ce ne sarebbero, di motivi) ma spesso – a mio avviso – addirittura difeso. Una linea editoriale peculiare per un giornale “di sinistra”. Motivi specifici ci sono, li vedremo magari un’altra volta.

Sui media, in TV e sul web, in America come in Italia, decine di articoli spesso con titoloni definiscono la Cina una minaccia autoritaria e un pericolo (dal virus al 5G alla Via della Seta). Il che ha portato a un’ondata di attacchi razzisti anti-cinesi sia fisici sia sicuramente in termini di percezione psicologica e culturale (hate speech).

Un esempio lampante è Ian Bremmer che, con la sua GZero, pontifica su un 5G americano, una via della seta Usa e (dov’è il bidone della benzina?) sanzioni economiche da imporre alla Repubblica Popolare Cinese per aver usato il pugno di ferro a Hong Kong. Tutte ricette utili ad accendere la miccia.

Oggi i sondaggi del Pew Research Center mostrano che a 2/3 dei cittadini Usa la Cina non piace, e solo il 26% ne ha un’opinione positiva, mentre tre anni fa gli americani avevano una visione neutrale del Dragone. Se 8 su 10 sono a favore di una guerra economica su vasta scala contro Pechino, la propaganda mediatica, psicologica e culturale ha fatto centro. Del resto Trump minaccia via Twitter tutti i giorni. Un motivo c’è: i più informati, a Washington, fanno capire che il presidente farà del conflitto Usa vs Cina l’argomento n.1 della sua campagna elettorale, ci si giocherà la rielezione a novembre.

E Joe Biden? L’ex vicepresidente, negli otto anni dell’amministrazione Obama, ha attaccato Trump sulla Cina, da destra, cercando di presentare il tycoon come un asset di Pechino. Il che ricorda quel che fece (senza successo) Hillary Clinton quando nelle presidenziali del 2016 descrisse l’ex palazzinaro come una risorsa del Cremlino.

Ecco perché le elezioni di novembre, narra il consensus degli analisti politici, saranno le più aspre, divisive e avvelenate degli ultimi 50 anni. E statene certi: della ricca Cina comunista, si parlerà a iosa.

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