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di Monica Valendino

La lingua italiana si è sempre adattata ai tempi come il suo popolo. Durante il fascismo il “voi” aveva sostituito imperativamente il “lei”, così come le parole straniere erano considerate sovversive. Negli anni Sessanta, altresì, si è cercato un linguaggio più forbito, ma finalmente privo di restrizioni. Poi gli anni Ottanta e le prime contaminazioni straniere ad uso comune.

E via via fino ad oggi, quando in tempi di virus soprattutto certi media (letti proprio come si scrive) si distinguono in originalità alla ricerca di nuovi aggettivi, neologismi o parole anglosassoni da offrire, che più che spiegare il nostro tempo lo confondono ulteriormente.

Chi ha avuto la fortuna di fare il corso di giornalismo sa bene che per affrontare l’esame di Stato deve seguire soprattutto due consigli: essere chiari e non abusare di terminologia scorretta. Tutto sembra svanire un attimo dopo aver conseguito l’ambito attestato di “professionista” a quanto pare.

Per esempio si legge con un po’ di preoccupazione quanto siano restii alcuni paesi europei nel voler concedere aiuti senza condizioni. Vengono definiti da qualcuno “frugali”, così ci immaginiamo il primo ministro olandese Rutte che discute dinanzi a una tavola sobria di merluzzi e pane di come poter convincere gli altri della sua veduta contenuta.

Ma in economia è da tempo che si aggirano fantasmi che gli italiani poi assimilano, ripetono, ma senza averci capito nulla. Il famigerato “Recovery fund” (non found come qualche giornale ha titolato), non è altro che un fondo garantito dal bilancio dell’Unione Europea. I bond si possono tradurre facilmente con obbligazioni, ma sembra brutto e poi irriterebbe qualcuno, evidentemente.

Come potrebbe irritare qualche politico che usa la sua lingua natia (il “politichese”) per confondere gli elettori promettendo un abbassamento delle tasse, che sono da sempre differenti dalle imposte: per “tassa”, infatti, si intende un tributo dovuta dai cittadini privati allo Stato. Con il termine “imposta” si indica, invece, un tipo di tributo caratterizzato da un prelievo coattivo di ricchezza dal cittadino contribuente.

Quindi quando si promette qualcosa sarebbe opportuno specificare dove si vogliono abbassare le aliquote. Così come quando si sfoggia la famigerata “spending review”, si parli di revisione di spesa specificando magari dove si vogliono fare i tagli (magari non al welfare, ovvero nelle politiche sociali).

In tempi di virus (termine latino) è però altrettanto comune parlare di privacy (che si legge senza “ai”) e che altro non è che la riservatezza e il diritto che la tutela. Qualche teorico ha reclamato il dovere del legislatore a inserire nelle norme che riguardano i dati sanitari “l’assolutamente vietato diffonderli”. Come se solamente vietato fosse troppo poco, come se tali dati comunque non siano già vincolati a leggi molto particolareggiate.

Ma questo è tempo anche di nuovi aggettivi: chi non ha sentito dire a qualche conduttore che la situazione è quanto mai “plastica”? Null’altro che in via di prender forma, ma l’aggettivo “fluido” esisteva e funzionava bene e forse anche meglio per descrivere l’oggi. Ma del resto questa è l’era del populismo, usato come sostantivo dispregiativo quando sfocia nella demagogia. Il dizionario ricorda però che è anche un “movimento politico-culturale russo, che si sviluppò tra la fine del sec. XIX e l’inizio del XX, aspirante a una sorta di socialismo rurale, in opposizione al burocratismo zarista e all’industrialismo occidentale”.

Per cui un appello: oltre a una cura per il Covid-19 si trovi una cura all’italiano, prima che i giornali o i broadcaster (le emittenti) lo usino come arma di distrazione di massa.

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