Cinema

Clint Eastwood, 90 anni per l’attore diventato il regista di un cinema personalissimo, classico e sconvolgente ad ogni visione

Clint regista è un mago degli effetti non speciali. Un attore molto ma molto autore, modello nouvelle vague che ha cercato e voluto da regista un’indipendenza creativa e produttiva mica da ridere

di Davide Turrini

Noi Clint Eastwood ce lo immaginiamo dietro alla vetrata offuscata di uno scalcagnato diner di provincia mentre sbocconcella una fetta di torta al limone. Nascosto tra le suggestioni e i ricordi di un film sublime come Million dollar baby e di un cinema personalissimo, classico e sconvolgente ad ogni visione, che lo ha visto protagonista assoluto e totale, davanti e dietro la macchina da presa per oltre 50 anni. Già, perché il vecchio Clint il 31 maggio 2020 spegne 90 candeline. E non sappiamo se le spegnerà con una Colt della trilogia del dollaro di Sergio Leone, con una 44 Magnum dell’ispettore Callaghan, o anche solo con indice e pollice della mano come nel suo Gran Torino. Banale e scontato lo sappiamo, ma basta solo questo breve esempio per comprendere la capacità di Eastwood di saper trascendere dalla materialità dei film di genere, che lo vedevano carne e sangue attoriale agli ordini di importanti registi fino agli anni settanta, fino al poetico esistere come gesto, come simbolo, al di sopra del reale, nei suoi film da regista spesso anche interpretati con soave e naturale delicatezza.

E visto che siamo sul filo dei ricordi fin dalla prima riga, mentre scriviamo queste parole pensiamo a come Eastwood si inquadra all’interno di un film romantico, straziante e commovente come I ponti di Madison County. Robert/Clint come apostrofo rosa nella vita ordinaria e faticosa di Francesca/Meryl Streep, campagnola tutta casa e famiglia, ma pronta ad aprirgli il cuore ad ogni click di macchina fotografica. Era il ’94 e l’allora 64enne Clint si mise in scena e si riprese con una chioma lunga e fluente, camicioni larghi e bretelle. Nulla di eroticamente esibito, nulla di fisicamente prorompente, lui che era stato (ed è rimasto per decenni) uno dei belli di Hollywood. Ecco uno dei segreti del suo essere uomo di cinema a tutto tondo: saper giocare con la propria immagine oltre il divismo, oltre l’apparenza, oltre il limite della confezione prevedibile. Certo, per diventare “grande” regista ha dovuto ingranare un tantino. L’essenzialità della sua sintassi da cineasta comincia ad essere un pregio stilistico solo attorno a metà anni ottanta, dopo oltre un decennio di regie (nel 1971 la prima con Brivido nella notte), probabilmente con quell’Honkytonk Man dove il corpo di Clint si dissolve gradualmente in scena, un po’ come la sua Maggie di Million dollar baby.

Le regie di Eastwood infatti sono regie a togliere, regie in cui i pochi tratti che gli servono abitualmente per delineare anima, senso e ritmo del racconto arrivano con una scrematura saggia e rispettosa della classicità della storia. “Nel cinema c’è la tendenza a trattare gli spettatori come se ci fosse il rischio che escano dal cinema se non gli si spiega ogni minimo dettaglio (…) personalmente preferisco che i film lascino un margine di riflessione. (…) Non occorre arrivare al punto in cui l’ambiguità diventa noiosa, ma se a volte non si dice tutto esplicitamente l’effetto nella mente dello spettatore è molto più pittoresco che se si descrive tutto per filo e per segno”, dichiarò in un’intervista nel 2005. Ecco pensate a queste parole e ripassate il finale del sorprendente Mystic River. A seguire un film di Eastwood non hai mai una sovrabbondanza di frammenti a livello visivo con cui fare i conti, ma le immagini scelte che ti vengono proposte ti saziano sempre. Riprendiamo un film come I ponti di Madison County, un lavoro finemente cesellato senza virtuosismi stilistici attorno a piccoli gesti, pose, sguardi dei protagonisti, e allo stesso tempo, ad alcuni take in campo lungo tra strade e natura circostante. In certi momenti pur nella mancanza di spettacolarità non riesci a togliere gli occhi dallo schermo. Un approccio formale che talvolta si è anche come arenato nelle secche di una vaga sciatteria (Invictus ma anche Hereafter). Intoppi, passetti falsi che in corpus di 38 titoli sono come delle sfocate macchie in fondo al grembiule sempre un po’ sporco dell’artigiano. Clint regista spesso fa soffrire il Clint in scena. Lo fa piangere, gli toglie gli affetti più cari, lo fa morire, anzi ancor meglio lo fa come sparire.

Clint regista è un mago degli effetti non speciali. Un attore molto ma molto autore, modello nouvelle vague che ha cercato e voluto da regista un’indipendenza creativa e produttiva mica da ridere. Fin dalla prima regia, e per tantissimi titoli dove è protagonista, avvia un rapporto quasi esclusivo con la Warner Bros e già fin da metà sessanta fonda una sua casa di produzione, la Malpaso derivante oltretutto dai compensi ricavati dai film girati con Leone. A metà anni ottanta diventa una sorta di icona dell’autorialità in mezzo al cinema plastificato che si faceva ad Hollywood. La Cinemateque Francaise gli dedica una retrospettiva, mentre i suoi film cominciano a finire in anteprima a Cannes. Sono gli anni (1986-88) in cui Clint diventa sindaco (200 dollari di emolumenti mensili) di Carmel, un paesino costiero della California dove non vige la norma degli indirizzi e si va alle poste per ritirare le proprie missive, e dove è vietato per legge indossare tacchi alti.

Eastwood che è sempre stato repubblicano, anche quando i giornali progressisti europei lo avevano trasformato in maniera fittizia in una sorta di liberal (c’è ancora chi oggi lo usa come sinonimo di liberale) ha spiegato più volte il suo spirito conservatore ma ribelle: “Mi sono sempre considerato troppo individualista per essere di destra o di sinistra”. E a chi sosteneva che Callaghan fosse fascista e razzista spiegò: “La gente pensava fossi un fanatico di destra. Tutto che Harry faceva, obbediva ad una superiore legge morale. Alcuni dissero perfino che ero un razzista perché sparavo ai rapinatori di colore. Bè, merda, anche i neri rapinano le banche. Quel film diede lavoro a quattro stuntman neri, ma nessuno disse una parola in proposito”. Eastwood è anche colui che gira un mirabile ritratto di Charlie Parker con Bird nel 1988, di certo non andando incontro ai favori del box office. Eastwood è pure quell’artista che dopo aver elevato il western in ogni sua forma tra gli anni cinquanta in tv e sessanta prolungandone la storia con gli spaghetti western, sforna il crepuscolare e definitivo Gli Spietati nel 1992.

Film che si racconta sia stato rifiutato dal Festival di Venezia ma che fa diventare Eastwood, già volto popolare da star, anche regista di peso per gli Oscar. Insomma, uno che va a ritmo di jazz mentre imperversa il rock, uno che va a compiere i 60 anni e che ribalta la legge d’oro dell’industria del cinema: più vecchio sei più Oscar vinci. Con un paradosso clamoroso: due Oscar come miglior regista e per il miglior film (Spietati e Million dollar baby), due nomination come miglior attore ma mai una vittoria. Curioso no? L’icona, il volto, l’espressione ultrapopolare è sopravanzata da questa professionalità seria e competente, una maturazione graduale e continua, che soprattutto tra i 60 e i 90 anni permette a Eastwood di regalare titoli indimenticabili. Noi poi adoriamo i suoi ultimissimi film. Sully, Ore 15:17 attacco al treno, Il corriere e Richard Jewell. Forse nemmeno Manoel De Oliveira ha offerto così grandi performance tra gli 80 e i 90 anni. Clint sì. Perché il cinema ce l’ha sempre avuto addosso. Con cappello o senza cappello.

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