L’ho fatto. In Svizzera. Il test seriologico Sars-Cov-2 de La Roche. E ho varcato la frontiera, visto che a Milano mi rimbalzavano da un laboratorio di analisi all’altro e visto che con il paese di Heidi (dove le caprette non ti fanno più ciao) ho una certa familiarità e tra i monti tengo pure mezza famiglia, i miei figli nel momento del lockdown erano lì a trovare il padre e lì sono rimasti. Avevo parlato prima con il consolato svizzero a Milano, con l’ambasciata a Roma, avevo scritto un email all’Ufficio di Stato della Migrazione con sede a Berna. Ho preparato con diligenza la mia corposa documentazione: comprovate esigenze professionali, sono stata pure residente nel Saanenland, ho ancora la patente svizzera, cellulare svizzero e perfino l’abbonamento mezza tariffa sui mezzi pubblici, che qui è davvero vantaggioso, visto che treni e autobus costano tre volte di più che da noi.
Stazione centrale, deserta, oltrepasso il primo checkpoint. Treno Milano-Domodossola, sul sedile davanti a me e di fianco il cartello: lasciate libero questo posto. Non ce ne sarebbe bisogno, siamo tre, sconsolati viaggiatori, in tutto il treno. Alla stazione di Domodossola non c’è anima viva, tranne i poliziotti italiani che mi chiedono l’auto/certificazione, pioviggina, tutto intorno è un po’ spettrale. Oltre tre ore di attesa per la prossima coincidenza, dunque ho tutto il tempo per sbrigare le faccende doganali. Ma per emergenza Covid-19 l’ufficio doganale è stato spostato a Brig. Quando gli addetti al controllo passaporti salgono sul treno tutto fila liscio come l’olio.
Il Saanenland è una distesa di prati in fiore che sembrano usciti dal pennello di Monet. Gli esercizi pubblici, ristoranti, bar e negozi, sono stati aperti da qualche giorno. Si respira aria di ritrovata normalità. Incrocio per strada qualche faccia conosciuta in maschera (intendo mascherina): come dico che sono appena arrivata da Milano, cambiano espressione, si allontanano ancora di più della distanza sociale di sicurezza del metro e mezzo. Per loro la Lombardia è ancora il Lazzaretto d’Europa e, di conseguenza, io potrei essere una potenziale untrice. Dal macellaio si entra non più di due persone alla volta, io esco, Marina di Savoia entra, anche dietro la protezione delle maschere ci riconosciamo e ci sbracciamo.
Sono stati bravi ‘sti svizzerrotti, diciamocelo, disciplinati, con un lockdown parziale (le persone erano libere di uscire, di fare una passeggiata, vietati, ovviamente, gli assembramenti ) da paese, il secondo più contagiato d’Europa per densità di popolazione, secondo le statistiche di Worldometers, sono scivolati dall’ottavo posto al 29esimo: 30761 casi di contagio, in totale 1915 deceduti, ad oggi solo 10 nuovi contagi.
E continuano le loro misure di allentamento: da sabato 30 maggio sono ammesse tavolate ai ristoranti fino a 30 persone. Dalla prossima settimana si può arrivare a un massimo di 300 persone. Ma la bella notizia è un’altra: il 4 giugno riapriranno anche i bordelli. Per chi non lo sapesse la prostituzione in Svizzera è una libera professione regolamentata e legalizzata dal 1942. Mentre gli sport, come judo, boxe, wrestiling e danza rimangono proibiti. Possibile che la lotta o un pas à deux porti contatti più ravvicinati del sesso? A me sfugge qualcosa in questa logica che ha più buchi di un formaggio a gruviera.
Prima di partire ero in lista d’attesa a Milano per il test sierologico, qui, invece, tutti i medici del Saanenland sono provvisti di kit diagnostico, fisso un appuntamento con il dottor Franco Scorrano, ex primario di medicina interna all’ospedale di Saanen, di origine pugliese, da 30 anni in Svizzera. È il medico di famiglia che sa ascoltare il paziente. Sta facendo test seriologici a tappeto. Quello messo a punto dai laboratori di Basilea de La Roche ( che lavora attivamente anche con La Food and Drug Administration americana) è tra più accurati che ci siano sul mercato. Basta un prelievo di sangue per misurare gli anticorpi del paziente venuto in contatto con il virus. Costa una quarantina di franchi più Iva. Prelievo e risultato in 24 ore. Il dottor Scorrano mi scruta attraverso gli occhiali: “Ha avuto qualche sintomo da Covid?”. Ripenso alla mia più recente cronistoria medica: chi supera l’inverno senza un qualche colpo di tosse, uno starnuto, un indolenzimento muscolare?
Ma niente di più. “Lei ha anticorpi da elefante, ne ha una tale quantità che potrebbe donare il sangue per garantire l’immunità agli altri”. Sono a dir poco sorpresa del mio patentino di immunità al virus. Ma come mi sono procurata la mia corazza immunologica? Prima del lockdown milanese ero in Engadina che si è poi rivelata essere un focolaio dell’epidemia, presumo che il “mostro” con me sia stato clemente visto che i primi di marzo ho avuto per un paio di giorni solo un po’ di stanchezza muscolare che ho scambiato per un colpo di freddo. Ho preso due compresse di tachipirina, le uniche che avevo e devono aver funzionato.
Adesso dubbi e sensi di colpa. Essendo una “quasi” asintomatica chi avrò contagiato. Mi auguro nessuno. Ripercorro una mappa mentale di quello che ho fatto nei giorni “pericolosi” da contagio e parte il tam tam telefonico con le persone che ho incontrato. Alcune stanno benone, altre hanno avuto sintomi analoghi ai miei. Gli anticorpi compaiono dopo 10/15 giorni che il paziente è venuto a contatto con il virus.
Scorrano mi informa che basta un indice di positività di 1.10, il mio referto parla di 21.40. Quando dura lo scudo di protezione? Chi può dirlo, tre mesi, sei mesi…forse di più. In Svizzera non mi viene chiesto di fare un’ulteriore “quarantena”. Adesso come da prassi aspetto di essere “tamponata” e poi a chi lo vorrà farò donazione del mio siero. Ma il sangue italico deve servire alla buona causa del mio paese.
Pagina Facebook di Januaria Piromallo