Sparecchiate il tavolino di plastica per l’estate in giardino. Per annusare e godere di buona letteratura c’è sempre bisogno del freddo. Sia fuori, all’aperto, dove tira aria buona; sia all’interno, di fronte alla maestosità delle viscere del Monte Bianco tra le pagine di Fronte di scavo (Einaudi). L’autrice si chiama Sara Loffredi e sembra scesa dal pianeta di quella letteratura da montagna che da Paolo Cognetti in poi è riemersa prepotentemente nel panorama italiano. Come se oltre una certa quota in altitudine fosse nascosto un intimo cuore di tenebra, un brulicante disagio individuale che necessita di essere raccontato con pudore e grazia intonsa. Basta inoltrarsi in questo spazio oscillante tra la cruda realtà della terra e il maestoso scenario del simbolico. Loffredi ambienta il suo terzo romanzo tra il 1961 e il ’62, poco a ridosso dell’inizio del tunnel del Monte Bianco, nel grande cantiere dove si organizzano i lavori di perforazione della roccia. Protagonista è Ettore, uomo di città (milanese), un ingegnere che partecipa al progetto del traforo. Il romanzo ha questo incipit clamoroso: “La bocca della montagna apparve dopo l’ultima curva: spalancata, mi aspettava”. E allora, caro lettore, che fai? Entri, circospetto, con le antenne dritte per captare ogni segnale di vita e speranza, incuneandoti nel tunnel puntellato dai fabbri, fatto saltare metro dopo metro dai minatori. Capitolo dopo capitolo, scorrono con volontaria e curata irregolarità la visita dei committenti e la morte di un uomo, i sentieri/scalate impossibili da fare a piedi sopra il monte e i carotaggi della memoria di vent’anni prima, una valanga improvvisa e una donna contesa. Loffredi fa entrare ed uscire Ettore da quel tunnel, cerca di fargli “trovare il suo passo”, lo sposta in prima persona singolare tra le righe di un racconto organico e teso, con questo incedere inquieto e dolente che ricorda i personaggi di una strana miscela tra Cassola e Fenoglio. Fronte di scavo è la quintessenza del romanzo d’altri tempi: l’uso perfetto di determinati nomi propri (Hervé, Roversi, Nina), la scelta di verbi radicati nel passato, la metrica pastosa. Una sfida herzoghiana e melvilliana tra uomo e natura, letterario scavo nell’irrequietezza di una ferita familiare che solo una figura poetica come il rabeilleur potrà sanare. Il punto non è che chi scimmiotta i grandi e il passato è più bravo e merita di più, ma che questo atteggiarsi è parte integrante e autentico di chi possiede talento. E Loffredi ne ha da vendere. Tanto che quando finisci Fronte di scavo hai voglia di rileggerlo e riassaporarlo come un morbido liquore appena maturato in una botte. “Il cantiere del Bianco era invece motivo di vanto. Lo osservavo come dalle quinte di un teatro, seduto al bar il pomeriggio con un bicchiere in mano. Contavo i bottoni sulle giacche degli uomini, i segni ai lati degli occhi, i nodi del legno delle panche dove si mettevano seduti. Contavo per rimettere in ordine i pensieri, poi tornavo alle parole che gli altri mi buttavano addosso perché ero un buon ascoltatore”. Voto: 7/8