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Recovery Fund, il ‘segnale forte’ dell’Ue non andrebbe esaltato ma biasimato

Il giorno dopo l’annuncio del piano europeo da 750 miliardi (500 a “fondo perduto”) si sono sprecati i commenti entusiastici di una larga parte della classe politica italiana, per lo più di area governativa. Nel corso della trasmissione “Otto e mezzo” di Lilli Gruber, il titolo in sovraimpressione era: “Europa batte sovranisti 1-0”. Matteo Renzi ci ha visto addirittura un cappotto: “Europeisti battono sovranisti 4-0”.

Sono reazioni curiose, quanto ingenue. Infatti, se anche (e davvero) si trattasse di un segnale forte e inequivocabile (“poderoso”, per dirla con il premier Conte) da parte dell’Unione, esso non andrebbe esaltato per la sua rilevanza, ma biasimato per il suo ritardo. Quindi, il tweet e il titolo di cui sopra potrebbero essere rettificati come segue: Europa-sovranisti 1-5.

Il colpo battuto dalla Von der Leyen potrebbe al più considerarsi come il gol della bandiera di una squadra materasso. Quantomeno se consideriamo i catastrofici effetti di un venticinquennio di Europa sull’economia reale dei singoli Stati e sulle tasche dei loro cittadini. In questo senso, è proprio “questa” Europa ad aver contribuito a rinfocolare le rivendicazioni nazionali, e quindi a far segnare un sacco di gol ai cosiddetti sovranisti tanto vituperati dall’establishment.

Ma c’è di più: persino coloro i quali applaudono al “punto” segnato con la proposta del Recovery Fund attribuiscono alla Ue delle prerogative che la Ue non ha. Per esempio, la possibilità di farsi carico degli impegni finanziari dei paesi in difficoltà o di intervenire attraverso iniezioni di liquidità. Entrambe le cose, come ormai arcinoto, sono vietate dai trattati. Quanto alla governance della politica monetaria, i vertici istituzionali dell’Unione (Commissione, Parlamento e Consiglio europeo) non hanno la minima influenza in proposito, ex art. 128 Tfue.

Il processo di creazione della moneta dal nulla è affidato in toto a un organo transnazionale e indipendente (la Bce) la quale non può, in base all’art. 130 Tfue, neppure sognarsi di chiedere, e tantomeno di accettare, indirizzi o input dagli organi Ue o dai singoli Stati. E la Bce, soprattutto dopo la sentenza di Karlsruhe del 5 maggio scorso, dovrà procedere con i piedi di piombo nelle sue (ad oggi generosissime) operazioni di quantitative easing.

E allora, i denari a pioggia di cui menano vanto i sostenitori della iniziativa Merkel-Macron da dove escono fuori? Non sono forse soldi dell’Europa, quelli? E non sono forse a “fondo perduto”, cioè “regalati” da Bruxelles? La risposta ad entrambe le domande, purtroppo, non può essere esattamente affermativa.

Intanto, i famosi 500 miliardi del “piano” non sono denari della Ue, ma dei singoli Stati. E così continuerà ad essere fintanto che l’Unione sarà un organismo internazionale (di Nazioni ancora parzialmente sovrane) privo, a sua volta, di sovranità fiscale. Ne discende che incappiamo nello stesso equivoco dei fondi europei. Si dice, da più parti, che l’Italia non li utilizza a dovere. Ma la realtà paradossale è un’altra: se l’Italia, semplicemente, non contribuisse al bilancio europeo, avrebbe molti più soldi di quanti ne riceve poi – a prezzo di complicatissimi iter burocratici – sotto forma di “fondi”.

Infatti, il nostro Paese è, come suol dirsi, un “contribuente netto”: dal 2000 al 2017 ha trasferito 260 miliardi al bilancio Ue e ne ha “ricevuti” 171. Nel caso del Recovery Fund, verranno stanziati, a partire dal 2021, 500 miliardi di aiuti di cui circa 82 destinati all’Italia ed erogati nell’arco di quattro anni.

Nel contempo, noi dovremo però “alimentare” il fatidico fund. Secondo calcoli prudenziali, il nostro concorso sarebbe come minimo di 55 miliardi. Con il che, il contributo “pulito” a nostro beneficio risulterebbe di appena 27 miliardi (7 all’anno), nella migliore delle ipotesi.

Come volevasi dimostrare, non c’è alcun serio motivo per esultare o per giustificare i toni trionfalistici di cui abbiamo dato conto in apertura. Ma soprattutto è ora di smetterla con l’esercizio retorico di parlare dell’Europa come se si trattasse di un Superstato in grado di realizzare ciò che auspicano i più accaniti sostenitori del progetto unionista.

Se e quando ci saranno gli Stati Uniti d’Europa avrà senso chiedersi che cosa può fare l’Europa per noi, tanto per mutuare il celebre interrogativo di Kennedy. Fino ad allora, però, fingere che quel Superstato esista – o trattare la Ue come se davvero disponesse di risorse proprie da destinare agli Stati membri – significa far torto all’intelligenza di tutti, anche dei sinceri cultori del sogno europeo.

Sarà il caso di rinfrescare il celebre aforisma di Abraham Lincoln: “Quante zampe ha un cane se chiami zampa la coda? Quattro. Chiamare zampa una coda non la rende una zampa”. Allo stesso modo, chiamare Europa la Ue non la trasforma in ciò che non è. Ad agevolare, o a evitare, questa trasformazione ci penseranno la storia e (speriamo) gli elettori.

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