La Pandemia ha messo a nudo il frutto, negativo, delle scelte economiche del Paese nella sanità, dove il successo in termini contabili non è stato uguagliato da un risultato positivo in termini di efficienza. D’altro canto rivedere la spesa, significa rinunciare ad altri costi e non smettere di monitorare come vengono utilizzati i soldi. Un processo che, insomma, richiede delle scelte ponderate, consapevoli e condivise per un nuovo patto sociale. A dirlo non è un politico, ma la Corte dei Conti, conoscitrice e custode delle scelte finanziarie di Roma e delle loro conseguenze.
“L’emergenza che il Paese sta affrontando ha reso più evidente, ove ve ne fosse stato bisogno, l’importanza di poter contare su una assistenza sanitaria efficiente e in grado di rispondere a minacce rese più insidiose da un sistema economico sempre più aperto e globalizzato. Una esperienza che ne ha messo anche in rilievo punti di forza e debolezze rendendo evidente l’ineludibilità di scelte che, al di là dell’emergenza straordinaria prodotta da “un nemico” inatteso, erano già di fronte a noi”, si legge nella premessa dell’approfondimento sulla sanità contenuto nell’ultimo Rapporto sul coordinamento della Finanza pubblica, in cui la magistratura contabile di fatto mette nero su bianco che risanare i conti della sanità ha in taluni casi messo a repentaglio l’efficacia del servizio.
EQUILIBRIO DEI CONTI A SCAPITO DEI SERVIZI – Secondo l’analisi, “il successo registrato in questi anni nel riassorbimento di squilibri nell’utilizzo delle risorse non ha sempre impedito il manifestarsi di criticità che oggi è necessario superare: si tratta delle differenze inaccettabili nella qualità dei servizi offerti nelle diverse aree del Paese; delle carenze di personale dovute ai vincoli posti nella fase di risanamento, ai limiti nella programmazione delle risorse professionali necessarie ma, anche, ad una fuga progressiva dal sistema pubblico; delle insufficienze della assistenza territoriale a fronte del crescente fenomeno delle non autosufficienze e delle cronicità; del lento procedere degli investimenti sacrificati a fronte delle necessità correnti”.
Difficoltà che sono destinate ad aumentare per l’invecchiamento della popolazione combinato con la natalità prossima allo zero, con conseguenze prevedibili in termini di costi per i lavoratori: “È ben noto che tra soli 20 anni, guardando alle previsioni, il rapporto passerà a un pensionato ogni due persone in età da lavoro, diminuendo la ricchezza generata e le risorse pubbliche a disposizione a fronte di un aumento dei bisogni di salute e assistenza – scrivono ancora i magistrati contabili -. Inoltre, il calo delle risorse disponibili al pensionamento delle generazioni oggi più giovani suscita forti interrogativi sulla possibilità anche in futuro di porre a carico dei cittadini quote crescenti di spese sanitarie e soprattutto sociosanitarie non coperte dal SSN“.
È ORA DI FARE DELLE SCELTE. CONSAPEVOLI – Quindi la Corte dei Conti invita fare una scelta nella consapevolezza che se si decide di aumentare i finanziamenti al sistema sanitario pubblico, bisogna rivedere “l’attenzione, finora risultata prevalente, a misure che comportano trasferimenti monetari diretti o minori prelievi fiscali”. In altre parole bisogna tagliare sussidi e agevolazioni fiscali e far quadrare lo stesso i conti pubblici. Non solo. Bisogna tener conto della necessità di continuare a controllare la spesa sanitaria per evitare che, come in passato, “inefficienze e cattiva gestione” si mangino le risorse aggiuntive destinate invece ad aumentare i servizi al cittadino.
TAGLIATO PIÙ DI SPAGNA E PORTOGALLO – Nel 2019, la spesa sanitaria italiana ha raggiunto i 115,4 miliardi, con un incremento dell’1,4 per cento rispetto al 2018, inferiore a quella prevista nel Documento di economia e finanza di quell’anno e mantenendo “sostanzialmente invariata l’incidenza in termini di prodotto rispetto al 2018”. Tuttavia tra il 2009 e il 2018 si è verificata una riduzione, in termini reali, delle risorse destinate alla sanità “particolarmente consistente”. La spesa pro capite a prezzi costanti (prezzi 2010) è passata, infatti, da 1.893 a 1.746 euro con una riduzione media annua di 8 decimi di punto. “Una flessione molto più contenuta rispetto ad altri Paesi in difficoltà (Grecia -4,5 punti l’anno), ma che ci differenzia, pur rimanendo superiore nel livello, dall’andamento registrato in Spagna e Portogallo (rispettivamente -6 decimi e -7 decimi), Paesi che hanno vissuto come l’Italia difficoltà finanziarie significative“, commentano i magistrati contabili. La spesa è invece cresciuta (sempre in media annua) del 2 per cento in Francia, dello 0,5 per cento in Olanda, del 2,2 per cento in Germania. Ne derivano divari consistenti in termini di spesa sanitaria pubblica pro capite (espressa in parità del potere d’acquisto). Secondo le stime dell’Ocse, nel 2018 in Germania e in Francia la spesa pro capite era , rispettivamente, doppia e superiore del 60 per cento a quella italiana. Spesa che resta, tuttavia, superiore a quella spagnola di oltre l’8 per cento.
SULLE SPALLE DELLE FAMIGLIE – La prolungata attenzione sul fronte della spesa, i processi di riorganizzazione delle strutture sanitarie sul territorio e le difficoltà di adeguare l’offerta pubblica al mutare delle caratteristiche della domanda di assistenza si sono riflessi in un ampliamento della spesa a carico delle famiglie che tra il 2012 e il 2018 ha continuato a crescere che è aumentata del 14,1%, contro il 4,5 per cento di quella delle amministrazioni pubbliche. Di rilievo la crescita anche di quella coperta da regimi di finanziamento volontari (+31,5 per cento).
Con dei distinguo a livello regionale. Se in media la spesa privata pro capite a livello nazionale è di circa 612 euro, essa varia tra i circa 720 euro delle regioni del Nord-Ovest e i 471 euro del Mezzogiorno. Ancora maggiori le differenze tra Regioni: dai 1.000 euro della Valle d’Aosta ai 420 della Campania. Diversa, inoltre, la composizione della spesa. Se nel complesso oltre il 53 per cento della spesa è destinata ad acquisto di farmaci e attrezzature e apparecchiature medicali (era il 51 per cento nel 2014), nelle regioni del Nord-Ovest riguarda solo il 51 per cento delle uscite contro più del 60 per cento del Mezzogiorno. Una differenza dovuta al forte rilievo nel Sud e nelle Isole della spesa per farmaci (che ne assorbe oltre i 3 quarti). Rispetto ai 55 euro familiari per servizi ambulatoriali, poi, nel Mezzogiorno ci si colloca a meno di 40 contro i 65 del Nord, di cui 37 vanno ai servizi dentistici a fronte dei 16 euro del Mezzogiorno.
Nelle Regioni a più basso reddito, poi, la quota di spesa complessiva assorbita dalla sanità sta crescendo più che nel resto del Paese. “Pur riguardando un volume di risorse ben inferiore a quella utilizzata nelle aree più ricche del Paese, un percorso che veda crescere ancora la quota a carico del cittadino rischierebbe di risultare poco sostenibile“, commentano i magistrati contabili.
STRUTTURE TERRITORIALI A SECCO – Venendo all’emergenza Covid, la concentrazione delle cure nei grandi ospedali verificatasi negli ultimi anni e il conseguente impoverimento del sistema di assistenza sul territorio, divenuto sempre meno efficace, ha lasciato la popolazione italiana “senza protezioni adeguate” di fronte alla pandemia. La crisi, spiegano i magistrati contabili, ha messo in luce anche e soprattutto, i rischi insiti nel ritardo con cui ci si è mossi per rafforzare le strutture territoriali, a fronte del forte sforzo operato per il recupero di più elevati livelli di efficienza e di appropriatezza nell’utilizzo delle strutture di ricovero.
“Se aveva sicuramente una sua giustificazione a tutela della salute dei cittadini la concentrazione delle cure ospedaliere in grandi strutture specializzate riducendo quelle minori che, per numero di casi e per disponibilità di tecnologie, non garantivano adeguati risultati di cura, la mancanza di un efficace sistema di assistenza sul territorio ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate. – sottolineano i magistrati contabili – Se fino ad ora tali carenze si erano scaricate non senza problemi sulle famiglie, contando sulle risorse economiche private e su una assistenza spesso basata su manodopera con bassa qualificazione sociosanitaria (badanti), finendo per incidere sul particolare individuale, esse hanno finito per rappresentare una debolezza anche dal punto di vista della difesa complessiva del sistema quando si è presentata una sfida nuova e sconosciuta”.
A giudizio della Corte, è infatti “sempre più evidente che una adeguata rete di assistenza sul territorio non è solo una questione di civiltà a fronte delle difficoltà del singolo e delle persone con disabilità e cronicità, ma rappresenta l’unico strumento di difesa per affrontare e contenere con rapidità fenomeni come quello che stiamo combattendo. L’insufficienza delle risorse destinate al territorio ha reso più tardivo e ha fatto trovare disarmato il primo fronte che doveva potersi opporre al dilagare della malattia e che si è trovato esso stesso coinvolto nelle difficoltà della popolazione, pagando un prezzo in termini di vite molto alto”.
Una attenzione a questi temi si è vista nell’ultima legge di Bilancio con la previsione di fondi per l’acquisto di attrezzature per gli ambulatori di medicina generale, “ma essa dovrà essere comunque implementata superata la crisi, così come risorse saranno necessarie per gli investimenti diretti a riportare le strutture sanitarie ad efficienza”.
La magistratura contabile ricorda poi che “determinante nell’assistenza territoriale è il ruolo dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta convenzionati con il Ssn a cui spetta il compito di valutare il bisogno sanitario del cittadino guidando l’accesso agli altri servizi”. Ma “anche in questo caso il numero dei medici si è ridotto nell’ultimo quinquennio: del 3,8% nel caso dei medici di medicina generale e dell’1% per i pediatri. Una flessione che è stata più forte nelle Regioni non in piano di rientro”, a ciò si aggiunga “il progressivo invecchiamento degli organici e la difficoltà, quindi, di garantire una adeguata sostituzione”.
In flessione, inoltre, gli organici del servizio di guardia medica, che dovrebbe garantisce la continuità assistenziale per l’intero arco della giornata e per tutti i giorni della settimana. Tra il 2012 e il 2017 pur aumentando a livello complessivo i punti di guardia medica, il numero dei medici si è ridotto del 2,8%.
FUGA DEI MEDICI ALL’ESTERO – L’analisi parla anche di una vera e propria “fuga” dei dottori dall’Italia per mancanza di posti e bassi stipendi. Così i medici lasciano la Penisola in cerca di fortuna all’estero. In base ai dati Ocse negli ultimi 8 anni, sono oltre 9.000 i medici formatisi in Italia che sono andati a lavorare all’estero. Regno Unito, Germania, Svizzera e Francia sono i mercati che più degli altri hanno rappresentato una soluzione “alle legittime esigenze di occupazione e adeguata retribuzione quando non soddisfatte dal settore privato nazionale”. Una condizione che, sottolineano i magistrati contabili, “pur deponendo a favore della qualità del sistema formativo nazionale, rischia di rendere le misure assunte per l’incremento delle specializzazioni poco efficaci, se non accompagnate da un sistema di incentivi che consenta di contrastare efficacemente le distorsioni evidenziate”.
La magistratura contabile, tuttavia sottolinea che spesso non si tratta di veri e propri trasferimenti stabili, ma di richieste temporanee . “Come osservato dal ministero della Salute – si legge nel Rapporto – l’aumento delle certificazioni rilasciate ogni anno dall’amministrazione ai fini della libera circolazione dei medici e dei medici specialisti laureati in Italia verso i Paesi dell’Unione Europea non corrisponde necessariamente al numero dei medici che effettivamente si trasferiscono stabilmente all’estero”. La stragrande maggioranza dei casi continua a rimanere iscritto ad un Ordine italiano, inoltre tali certificazioni possono essere richieste esclusivamente per effettuare prestazioni occasionali e saltuarie in uno Stato membro, “come accade nel caso dei medici residenti in Regioni limitrofe al confine italiano”. In alcuni casi, “le certificazioni non vengono utilizzate, venendo meno l’ipotesi di un lavoro all’estero e in altri sono utilizzate per seguire percorsi formativi all’estero con l’intento di fare rientro in Italia”.