Come psicologo devo stare molto attento non solo a quello che dicono le parole, ma anche a quello che celano, e al sottotesto, ovvero a tutti gli impliciti del discorso. Sono andato a controllare il testo in inglese dell’autopsia preliminare di George Floyd. La traduzione apparsa sui giornali italiani mi sembra fedele.

Il medico legale scrive che non ci sarebbero evidenze fisiche che possano supportare una diagnosi di strangolamento o asfissia traumatica. È una formula anodina, che non esclude del tutto, ma sottolinea che non ci sono prove. La domanda che sorge è: se non è morto per quel ginocchio sul collo per nove minuti, che gli faceva dire “non respiro”, di che è morto?

La risposta è ricca di ipotesi. La combinazione di tre elementi: essere fermati dalla polizia, patologie pregresse, una sostanza intossicante presente nel corpo di Floyd. La prima mi preoccupa particolarmente: se mi ferma la polizia effettivamente provo un certo batticuore, anche se ho tutto in regola. Immagino di non essere l’unico. Se poi uno soffre di ipertensione (e qua non si dice se Floyd ne soffriva, come tanti dopo i quaranta in forma lieve, media, gravissima) la situazione si aggrava: il mio batticuore potrebbe diventare un infarto. Quanto poi alla sostanza intossicante, quale era? Aveva bevuto un whisky? Si era fatto una canna? Aveva preso anfetamine? Dove è la perizia tossicologica?

Qua le parole sono state scelte con cura, per non dire, per suggerire la disgrazia, il caso sfortunato, per spacciare per rilievi scientifici, tatti, quelle che sono solo ipotesi, le più favorevoli per la polizia. Certi referti sono cortine fumogene, lo abbiamo visto anche in Italia, vedi il caso Cucchi.

Peccato per il poliziotto che ci siano i video, altrimenti si poteva sostenere che era morto di spavento: questi neri son molto emotivi, si sa. Ci sta, perché la polizia americana tende ad avere il grilletto facile con i neri. Ne uccide un numero sei volte superiore a quello dei bianchi. Chi non si spaventerebbe ad essere fermato dalla polizia di Minneapolis, che ha una pessima reputazione di razzismo?

Lo dice Marlon James, scrittore vincitore del Booker Prize che in quella strada di Minneapolis ha vissuto, nell’intervista su Republica di sabato. Ma è afroamericano. Mi piacerebbe sapere qualcosa di più del medico legale. Tiro a indovinare: non è nero.

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