Che c’entrano le destre sovraniste con la solennità laica e repubblicana del 2 giugno? Da un lato gli eredi della tradizione post-missina di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che hanno ripudiato la fu svolta liberale e moderata di Gianfranco Fini a Fiuggi. Dall’altro il finto nazionalismo opportunista del leghista Matteo Salvini, che appena sette anni fa, nel 2013, strafottente rivendicava: “Il 2 giugno non c’è un cazzo da festeggiare”. Testuale.

Per non dimenticare la lunga campagna di Umberto Bossi contro il tricolore, il cui uso raccomandato non andava oltre quello di sostituire la carta igienica. Entrambi, poi, Meloni e Salvini, forse repubblicani ma certamente non antifascisti, vista la loro atavica allergia a un’altra festa laica della Repubblica, quella del 25 aprile.

Ecco perché la repentina riscoperta sovranista del 2 giugno non è solo sgrammaticata – la gaffe di voler deporre una corona all’Altare della Patria – e mero pretesto occasionale per dare addosso a Conte e alla sua maggioranza, ma è per certi versi decisamente anti-storica. Nel senso che non rispecchia l’approccio delle attuali destre sovraniste alla storia della repubblica.

Basta porre in epigrafe a questo ragionamento il famoso e sofferto discorso di Alcide De Gasperi alla conferenza di pace di Parigi, il 10 agosto del 1946: “Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico che mi fa ritenere un imputato”. A distanza di 74 anni da allora, quanto spirito degasperiano, diciamo così, c’è nella volontà pugnace di Meloni di festeggiare il 2 giugno, data simbolo che spezza in maniera irrimediabile la continuità storica della prima metà del Novecento italiano?

C’è da aggiungere che il centrodestra sarà nella sua veste completa quanto a rappresentanti anti-governativi in piazza. Non mancherà, cioè, Forza Italia che pur vantandosi da sempre della sua matrice liberale, non ha mai dimenticato di ammiccare nel corso di questi lustri, da Berlusconi e Dell’Utri fino a Tajani, al regime fascista di Benito Mussolini. Questione di pancia, cioè di accarezzare quella parte di elettori nostalgici che prima allignava finanche nel corpaccione democristiano. Ecco una miscellanea d’antan. Berlusconi: “Mussolini fece anche cose buone, non era proprio un dittatore, non ammazzò nessuno. Il regime non era così feroce”. Dell’Utri: “Mussolini era un uomo straordinario e di grande cultura, alla Montanelli. Non fu un dittatore spietato alla Stalin”. Tajani, infine: “Fino a quando non ha seguito Hitler, ha fatto cose positive come realizzare le infrastrutture e fare le bonifiche.

Ovviamente c’è Salvini, poi. L’adesione del leader leghista appare prevalentemente tattica, oltre che anti-storica per i motivi accennati all’inizio. L’immane tragedia del Coronavirus ha segnato un’inarrestabile discesa nei sondaggi della Lega e il Capitano non vuole lasciare all’arrembante Meloni, ormai in ampia doppia cifra, il monopolio della protesta.

Diciamo pure che Salvini non ha ancora compreso come poter recuperare consensi, nel frattempo tenta di andare a rimorchio della Giovanna d’Arco made in Garbatella che ambisce sempre più a un ruolo di prima fila. Da notare che entrambi, con le piazze di domani, mettono un’ipoteca sulla presunta rabbia sociale che da molti è prevista in autunno. Una scommessa decisamente anti-patriottica e che va contro lo spirito unitario al centro dei recenti discorsi del capo dello Stato Sergio Mattarella.

Al contrario le destre sovraniste, con la piccola aggiunta simil-liberale di Forza Italia, piegano questa festa ai loro interessi di parte. In pratica si ritorce contro di loro l’accusa che gli stessi Meloni e Salvini fanno alla sinistra in occasione dell’anniversario della Liberazione. Il paradosso è che mancano anche alcuni tratti polemici tipici del ventennio breve della Seconda Repubblica, dalla teoria della fatidica memoria condivisa all’uso militante della storia.

Qui siamo solo dinnanzi a una strumentale iniziativa contingente di due leader che non sentono neanche il bisogno di nascondersi dietro un preambolo repubblicano. Il loro intento esclusivo è quello di denunciare “il disastro giallorosso di Conte”. Hanno però sbagliato data, in maniera penosa.

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