Doveva essere la stagione chiave della carriera, si è trasformata in un purgatorio: sono tanti i calciatori della Serie A il cui futuro passa dalla ripresa dopo lo stop forzato a causa del coronavirus. C'è chi deve dimostrare di essere un campione vero, chi deve giustificare il suo (altissimo) valore sul mercato e chi invece deve convincere gli scettici che ancora può fare la differenza
In assenza di un verdetto del campo ha iniziato a serpeggiare una forma particolare di paura. Quella di ritrovarsi confinati a oltranza nello status quo, di finire risucchiati in un limbo appiccicoso. Perché per più di un calciatore questa doveva essere la stagione del rilancio, l’annata buona per dimostrare di poter ancora ambire a certi traguardi. Per altri, invece, doveva essere l’occasione giusta per compiere quel tanto atteso salto di qualità, per raggiungere la consacrazione definitiva. Poi è arrivata la pandemia globale e la sospensione del campionato ha sbriciolato il terreno sotto i piedi di molti dei giocatori di Serie A, facendoli finire fra “color che son sospesi”. E così, adesso, la loro annata rischia di assumere le sembianze di una sala d’attesa senza via d’uscita.
Proprio come è successo a Mario Balotelli, che dopo tre stagioni in Ligue 1 (molto positive le prime due con il Nizza, pessima l’ultima trascorsa fra la Costa Azzurra e l’Olympique Marsiglia), in estate era ritornato a casa per provare a ritagliarsi un posto nella rosa che Mancini avrebbe portato a Euro 2020. E il Brescia, che gli garantiva il ruolo di stella più luminosa della squadra, sembrava il palcoscenico ideale per questa ennesima operazione di rilancio. Solo che con le rondinelle Balotelli ha interpretato più il ruolo di Godot che quello del cannoniere. Il bottino è piuttosto modesto: 5 reti (una sola da tre punti, realizzata contro la Spal) in 19 presenze, con una media di un gol ogni 281’. Non esattamente numeri da bomber implacabile. Eppure c’è un altro dato che sembra raccontare alla perfezione la stagione di SuperMario: nelle 10 partite in cui l’attaccante non è partito titolare il Brescia ha messo insieme 9 punti (ossia 0,9 a match).
Una media incredibile se si pensa che con Balotelli in campo dal 1’ le rondinelle hanno racimolato appena 7 punti in 16 partite (ossia 0,4 ogni 90’). Con 12 giornate ancora da giocare, però, il futuro dell’attaccante sembra già distante da Brescia. E non solo perché le rondinelle rischiano sul serio di sprofondare in Serie B.
I rapporti con il club sono tesi da qualche tempo e sono peggiorati ulteriormente negli ultimi giorni, quando l’attaccante non si è presentato a un allenamento senza fornire spiegazioni. O almeno così fanno sapere alla società. Venerdì doveva essere il giorno della pace fra Balotelli e Cellino, con un chiarimento faccia a faccia nella sede del club. Invece, dopo mezz’ora di anticamera, il presidente avrebbe deciso di non ricevere il giocatore.
Ad aprile, invece, dopo aver bloccato una live chat fra l’attaccante e Rocco Siffredi, il presidente Cellino non aveva speso parole particolarmente affettuose per il suo centravanti: “Questo ragazzo mi mette in imbarazzo – aveva detto a Radio Sportiva – sono martellato da gente che si lamenta e mi mette alla berlina. Il fatto di averlo fatto tornare a casa sua l’ha sovraesposto, si nomina Balotelli solo per quello che fa fuori dal campo”.
Verso fine novembre era andata addirittura peggio, con Cellino che si era lascito andare a una battuta agghiacciante: “Balotelli? È nero, sta lavorando per schiarirsi però ha molte difficoltà – aveva detto a margine dell’Assemblea di Lega – Nel calcio ci sono le squadre che combattono e che vincono. Se noi pensiamo che un giocatore da solo possa vincere la partita, offendiamo la squadra e il calcio. Uno giocherebbe 1 contro 11 e non 11 contro 11″. Parole totalmente fuori posto che hanno spostato l’attenzione dal vero problema: il campo. A novembre il Brescia aveva conosciuto già il primo cambio in panchina: arrivederci Corini, benvenuto Fabio Grosso. Solo che l’esperienza dell’ex campione del mondo in Lombardia è stata un disastro. Alla dodicesima giornata il Brescia è sotto 0-2 con il Toro. All’intervallo, con un uomo in meno, Grosso sostituisce Balotelli con Martella, professione difensore. I granata calano il poker e il mister a fine partita spiega: “Ho lasciato in campo giocatori disponibili al sacrificio. Gli riconosco tante qualità, ma non quella della generosità difensiva. Avevamo bisogno di 9 giocatori di movimento che corressero a vuoto, questa non è una caratteristica che appartiene a Mario. Penso che però l’abbia capito”.
Il problema tecnico e tattico era iniziato molto prima. Perché in estate il Brescia era stato disegnato per giocare con una punta di movimento (Ayé) e un finalizzatole (Donnarumma), non con un doppio centravanti. E Balotelli, non esattamente un attaccante di sacrificio, sembrava già difficilmente collocabile in questo contesto. Esattamente il problema opposto rispetto a Gonzalo Higuain. In estate l’argentino era rientrato dal prestito al Chelsea ed era stato corteggiato a lungo dalla Roma. Solo che l’arrivo alla Juventus di Maurizio Sarri, l’allenatore con il quale a Napoli aveva segnato 36 gol in un solo campionato, aveva convinto la punta di poter tornare al centro del progetto bianconero. E all’inizio sembrava anche aver ragione: l’argentino è partito titolare in 4 delle prime 5 partite di A e ha ripagato la fiducia con un gol importante nel successo per 4-3 sul Napoli e con la rete della vittoria contro l’Inter del 6 ottobre. Poi, però, qualcosa è cambiato.
Nelle successive 19 partite Higuain ha segnato appena 3 gol, finendo per essere superato da Paulo Dybala tanto nelle gerarchie quanto nel minutaggio (1464’ giocati per il Pipita, 1525 per l’ex rosanero). Numeri decisamente bassi per un attaccante che nel 2016 è stato pagato 90 milioni di Euro e che ha uno stipendio da circa 7,5 milioni annui. Anche per questo, salvo eventuali miracoli da celebrare alla ripresa del campionato, a fine anno l’argentino dovrebbe salutare per cercare fortuna altrove. E proprio la Juventus, giusto qualche mese fa, sembrava la destinazione naturale per Federico Chiesa. I bianconeri erano disposti a investire una cifra superiore ai 60 milioni pur di strapparlo alla Fiorentina, ma il rifiuto di Commisso, che non voleva iniziare la sua presidenza con una cessione dolorosa quasi quanto quella di Baggio, ha costretto Chiesa a restare a Firenze. L’attaccante viola ha accusato il colpo e nelle prime uscite, ha offerto prestazioni distanti da quelle mostrate nelle scorse stagioni. Meno incisivo, meno appariscente, meno leader. Colpa anche del fatto che Chiesa si è ritrovato a scendere in campo con una squadra totalmente rinnovata e, soprattutto nelle sedici partite con Iachini in sella, con un minor accentramento dei compiti offensivi soltanto nei suoi piedi. Così in molti hanno iniziato a chiedersi se effettivamente quel ragazzo di 22 anni valesse un investimento monstre.
La risposta, però, stava arrivando a marzo, quando in 23 partite Chiesa aveva realizzato lo stesso numero di gol e di assist (rispettivamente 6 e 3) che aveva raccolto in tutto il campionato precedente (anche se i suoi passaggi chiave, i dribbling riusciti e i tiri a partita sono diminuiti rispetto al 2018/2019). Il suo trasferimento verso un top club sembra solo questione di tempo, eppure l’attaccante deve fare molta attenzione a non ripetere il cammino di Federico Bernardeschi, talento purissimo made in viola che a Torino rischia di essere stritolato dalla concorrenza: finora sono appena 9 le partite da titolare in stagione, con un bottino di zero gol e zero assist (e 14 occasioni create). Troppo poco per uno che era chiamato alla stagione della svolta. All’Inter, invece, l’inserimento di Christian Eriksen negli schemi di Antonio Conte è stato messo in pausa dal coronavirus, lasciando così aperti gli interrogativi sul suo effettivo posizionamento nel centrocampo a cinque nerazzurro. Problema diverso per Domenico Berardi, che dopo tanti treni persi stava dando vita a una stagione notevole fatta di 9 gol in 20 partite giocate. Uno score che, dopo un lungo periodo di assenza, l’aveva fatto tornare sui taccuini degli osservatori delle big. Paradossale, infine, il momento di Lorenzo Pellegrini. Il romanista ha confermato i suoi pregi e i suoi difetti: autore di un avvio da applausi, si è prima arreso a una serie di problemi fisici e poi ha faticato a tornare in forma. Il suo score recita 2 gol segnati e ben 8 assist (con una media di 2,9 passaggi chiave a partita), ma il ragazzo di Cinecittà manca una cosa sola per affermarsi su alti livelli una volta per tutte: la continuità di rendimento.