“Ti vengo a rompere la testa, ti rompo il…, ti vengo a prendere a sberle”. Queste minacce non sono pronunciate da criminali del sottobosco mafioso, fuorilegge per definizione, ma arrivano dai responsabili della gestione e del reclutamento dei rider addetti alla consegna del cibo per conto di Uber Italia, la filiale della società di San Francisco.
Approfittando dello stato di bisogno di richiedenti asilo, rifugiati scappati da guerre sanguinose, persone emarginate e disposte a tutto pur di racimolare qualche euro, queste società di intermediazione di manodopera non esitavano a imporre condizioni di lavoro al limite dello schiavismo.
Consegne pagate 3 euro ciascuna a prescindere dalla tratta da percorrere, penali assurde da 80 euro per la rottura o perdita della borsa da lavoro, mance sottratte con pretesti risibili e poi il ricatto principe su cui si fonda da sempre la catena dello sfruttamento: “se non accetti qualsiasi condizione non lavorerai più per noi”.
Non mi sorprende quindi la durezza del provvedimento emanato dal Tribunale di Milano che ha disposto il commissariamento per caporalato della filiale italiana della multinazionale americana; sorprende piuttosto come, nonostante numerose pronunce di giudici che hanno sentenziato di volta in volta l’obbligo di garantire ai rider le stesse tutele dei lavoratori subordinati quali tredicesima, malattia e ferie pagate o l’obbligo di dotarli di tutti i dispositivi di sicurezza per proteggersi dal Covid, le piattaforme di delivery continuino a ignorare i diritti minimi di questi lavoratori.
Voglio ricordare infatti che le violazioni commesse da Uber Eats non sono un’eccezione o una novità, ma una triste consuetudine in un mondo, quello delle piattaforme virtuali, dove il caporalato è diventato la regola e il lavoro a cottimo l’unica speranza di sopravvivenza in un quadro di disoccupazione dilagante.
Per questo invito tutt* a unirsi alla battaglia che i fattorini in bicicletta hanno ingaggiato da tempo tramite sindacati autogestiti come Deliverance Milano o Riders Union Bologna e Roma, che chiedono da tempo la regolamentazione di questo lavoro attraverso la definizione di un accordo collettivo e l’applicazione di un contratto nazionale per tutta la categoria.
Non si tratta infatti più solo di poter garantire una remunerazione adeguata e condizioni di lavoro non oppressive, ma di riuscire a fornire ai fattorini tutti gli strumenti per poter svolgere il lavoro con dignità e sicurezza, anche in una situazione di emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo