In un’unica sequenza, la lente della macchina da presa si sposta dalla camera da letto di Hubert verso un’altra, arrampicandosi sui muri delle case popolari. “It’s the sound of da police”, urlano le casse da una finestra aperta, sul beat vecchia scuola di KRS-One remixato con Non, je ne regrette rien di Édith Piaf. E mentre la musica diventa sfondo, la veduta aerea dà forma ai complessi residenziali della periferia profonda di Parigi.
Le scene degli ultimi giorni negli Stati Uniti, con le proteste per l’uccisione dell’afroamericano George Floyd per mano dell’agente di polizia di Minneapolis Derek Chauvin, sono di una coincidenza temporale disarmante. Venticinque anni fa come questa settimana usciva L’odio (La Haine, 1995), il film cult di Mathieu Kassovitz che ha portato sul grande schermo per il pubblico francese mainstream il disagio sociale della banlieue.
Sullo schermo, la rabbia di tre figli di immigrati contro la polizia e una società che li ha collocati, deterministicamente, ai margini. Nella realtà, diversità etnica, segregazione, e i palazzoni di case popolari delle periferie nord ed est della capitale francese.
Venticinque anni fa come oggi, in Europa come negli Stati Uniti, l’odio resta d’attualità. Disuguaglianze, incomprensioni e differenze culturali apparentemente incolmabili, segregazione residenziale – è tutto ancora qui. E ora come allora, interpretare questi problemi come una questione di ordine pubblico, in primo luogo da parte della polizia, soffia sul fuoco delle violenze.
Disuguaglianze e tensioni negli Usa tra violenza e contagio
Si diceva delle coincidenze temporali tra L’odio e il caso di George Floyd, tutt’altro che sorprendenti. Basti pensare all’incidenza dei casi di violenza da parte della polizia negli Stati Uniti. Solo nel 2019, la polizia ha ucciso in media 3 persone al giorno, per un totale di circa 1100 vittime. Secondo il report del gruppo di ricerca Mapping Police Violence, nel 24% dei casi si trattava di afroamericani. Una proporzione che non regge il confronto con i dati sulla composizione demografica degli Usa, dove questi sono solo il 13%.
Gli afroamericani negli Stati Uniti si trovano ora nella morsa di una doppia crisi. Mentre le proteste continuano, il coronavirus non si ferma. Lo stesso George Floyd era rimasto disoccupato a causa delle conseguenze socioeconomiche della pandemia. Perché il Covid-19, come sappiamo ormai, colpisce fasce della popolazione diverse in maniera differente.
Come riportato dal New York Times, i dati di aprile mostrano che il 43% dei decessi in Illinois riguardava persone di colore, nonostante queste rappresentino solo il 15% della popolazione dello stato. Dati simili in Michigan, con decessi al 40% e rappresentatività demografica al 14% sul totale della popolazione. In Louisiana va anche peggio, dove il 70% dei deceduti era afroamericano, nonostante questi siano solo un terzo dei residenti dello stato.
Le geografie del contagio, delle disuguaglianze e della rivolta si sovrappongono, generando una situazione così esplosiva da sfociare in proteste, a volte violente, che il presidente Trump ha appena annunciato di voler reprimere anche a costo di usare la forza (e dove sta la novità, direte voi).
“L’odio” e gli scontri nelle periferie di Parigi
Nonostante le grandi differenze sul tema tra la situazione negli Stati Uniti e in Europa, in primo luogo in termini di numeri assoluti, il venticinquesimo compleanno de L’odio permette almeno di affacciarsi all’argomento con una certa consapevolezza.
Nell’aprile del 1993, un immigrato di 17 anni viene accidentalmente ucciso in un commissariato del 18esimo arrondissement di Parigi. Kassovitz, il regista, decide quindi di cominciare a scrivere un film destinato a suscitare un ampio dibattito in Francia, essendo il primo a portare sulla scena il profondo divario tra centro e periferia in maniera così cruda. Nel giugno del 1995, una settimana dopo l’uscita del film, un immigrato 21enne di seconda generazione muore a seguito di un inseguimento con la polizia. La rivolta scoppia nel sobborgo parigino di Noisy-le-Grand, espandendosi rapidamente anche ad altre zone periferiche del Paese.
Quella non fu né la prima, né l’ultima delle rivolte nelle banlieue. Le sollevazioni degli anni 90, del 2005 e del 2017, però, evidenziano ancora una volta la sovrapposizione tra la geografia della disoccupazione, delle disuguaglianze, e del disagio sociale diffuso – anche nell’Europa occidentale. In tutti questi casi, infatti, le aree coinvolte erano nei quartieri popolari della periferia di Parigi, colpiti duramente dal declino dell’industria e della manifattura seguito alla crisi degli anni 70.
Non una questione di inclusione sociale, ma di ordine pubblico
La segregazione etnica e residenziale di queste zone è lampante. La classe media francese, infatti, ha voltato le spalle ai grandiosi progetti di urbanizzazione e rivalutazione degli anni 60 e 70, favorendone la caratterizzazione identitaria migrante.
Secondo uno studio del 2011, circa il 35% delle famiglie algerine e marocchine in Francia vive nelle HLM (“Habitation a Loyer Modéré”, le case popolari), mentre il 40% di tutti gli immigrati del Paese vivono nel centro e nelle periferie di Parigi. Gli immigrati sono principalmente impiegati nelle occupazioni manuali (40%), con il 20% di questi appartenente nella categoria del lavoro non qualificato. E fino a 10 anni fa, il 35% dei lavoratori poco qualificati originari del nord Africa e della regione subsahariana era disoccupato.
L’incapacità delle politiche pubbliche di intervenire su queste sacche di disagio si manifesta in una grande incomprensione, eufemisticamente parlando, tra le classi dirigenti e la popolazione. Si è permesso, infatti, che questo disagio crescesse all’interno delle banlieues, peggiorando problematiche di esclusione sociale sia dal punto di vista etnico, sia di classe.
Le banlieues sono diventate quindi una questione di ordine pubblico da risolvere a causa del loro “attacco frontale ai valori della Repubblica”, e non per mezzo di politiche socioeconomiche davvero inclusive. Mentre la République dichiarava il suo carattere universalista nella teoria, di fatto separava le periferie dal centro delle città, indicandole come uno spazio da ordinare anche con l’esercizio del potere coercitivo.
Troppi, anche nel cuore di questa Europa, hanno la sensazione che le rivolte possano scoppiare di nuovo da un momento all’altro. Troppi percepiscono che nulla in realtà sia cambiato da L’odio a oggi, nonostante le sollevazioni passate. Nella banlieue francese come negli Stati Uniti, differenze e discriminazioni si sono inscritte nel corpus della grande città. E più questa segregazione genera cittadini di serie A e di serie B, più le conseguenze sono drammatiche per la coesione sociale delle capitali e delle comunità occidentali.
Foto: “L’odio” (La Haine, 1995), di Mathieu Kassovitz